Quaderni, dattiloscritti, bozze autografate di alcune opere edite, trasmissioni radiofoniche, discorsi e corrispondenze. Sono solo alcune delle cose preziose che si aprono allo sguardo mentre si scorre l’inventario del fondo depositato all’Archivio letterario di Berna dedicato ad Alice Rivaz. Scrittrice svizzera di lingua francese, nata nel 1901 a Rovray, nel Canton Vaud, con una vita longeva e una attività letteraria intensa che inaugura nel 1940 e conclude poco prima della morte, nel 1998. Poche le foto a colori che la ritraggono, eppure si intravvede lo spirito cortesemente acuminato di questa elegante signora della letteratura, amante della pittura e del pianoforte, degli insetti e dei più deboli della terra, con un padre istitutore che dopo l’adesione al socialismo diventa attivista e una madre ex diacona fervente calvinista.

GLI OCCHI, di placido blu che si sono posati sul mondo, possedevano la curva della mezzaluna simile a quella del Lago di Lemano; proprio a Ginevra Alice Rivaz, venticinquenne, si trasferisce e trascorre l’intera esistenza. Dopo l’incontro decisivo con Charles Ferdinand Ramuz, pubblica il suo primo romanzo Nuvole tra le mani (1940) a cui ne seguiranno degli altri. Tradotta in lingua tedesca, anche in Italia da circa un ventennio, è arrivato qualche titolo.
Con un’attenzione che le viene conferita dalla casa editrice Paginauno, arrivano dunque qui anche Racconti di memoria e d’oblio (1973) e Getta il tuo pane (1979) a cui si aggiunge una importante e inedita traduzione italiana, fino a oggi, di un testo del 1947, La paix des ruches. Fedele nel titolo, La pace degli alveari (edizioni Paginauno, pp. 135, euro 15, traduzione e introduzione di Sabrina Campolongo, postfazione di Valérie Cossy) è il diario segreto di Jeanne Bornand, una donna sposata a un uomo che non ama più, segretaria in un ufficio cittadino insieme ad altre che le diventano amiche e che acquistano il ruolo attivo di altrettanti specchi entro cui misurare e allenare la conoscenza di sé.

COMPOSTO durante l’impiego presso l’Organizzazione internazionale del lavoro, lasciato nel 1959 per concentrarsi solo sulla scrittura, Alice Rivaz conferisce al diario il tenore di un pamphlet che viene a collocarsi nel solco sia della propria produzione che di opere coeve e affini per datazione e tematiche. Il quotidiano, ciò che una donna comune fa della propria giornata è «rivolta piccolissima e silenziosa» a partire da sé, decostruzione puntuta e non poco dolente di riti, mitologie domestiche, perlustrando oggetti dotati di vitalità e memoria; lo racconta bene Campolongo nella introduzione in cui prende per mano altre protagoniste che lievitano tra le pagine di Rivaz. Insieme a loro viene a costruirsi la delicata grammatica affettiva di una scrittrice che Annie Ernaux non ha esitato a chiamare «sorella di femminismo». In particolare nel suo La pace degli alveari, è alle altre donne che Alice si rivolge, in più di un passaggio, chiamando al proprio desiderio l’intendimento di mostrare il coraggio imprescindibile della relazione. Che sia scossa dal tradimento del giorno o invece audacemente algida, la relazione tra donne non è un pranzo di gala, è piuttosto giocata – segnala Rivaz – da una grande e rischiosa forza. Sono le madri e le sorelle a cui in più di un passo si rivolge Jeanne Bornand là dove, nella quiete della sera e quando il marito la grazia della propria lontananza, prende carta e penna e scrive.

L’APPRENDISTATO alla felicità che una donna, già libera nella propria mente, contratta per conquistare spazi di maggiore agio e manovra, si staglia in questa intermittenza, carnale e pulviscolare come il chiaroscuro del vissuto; trama fitta che ha già nel proprio respiro ciò che accadrà due anni più tardi: la pubblicazione nel 1949 del volume di Simone De Beauvoir, Il secondo sesso di cui La pace degli alveari sembra essere una indovinata e breve sinossi anticipatrice. Sulla relazione di Rivaz, per temperie e ordine simbolico che attiene alla emancipazione prima e alla libertà del femminismo poi, interviene Cossy che nella postfazione porta la scrittrice svizzera a interloquire appunto con De Beauvoir ma anche con Virginia Woolf.

Se gli uomini preferiscono la guerra alla pace delle api, parlare di matrimonio per Jeanne corrisponde alla congiunzione con l’amore, interrogandosi cioè sulla decisione – atto puramente tecnico – che spesso non coincide con la scelta – questione più autentica e complessa. Solo Marguerite, tra le sue amiche, ha la fortuna di conoscere questa speciale convergenza. Negli altri casi invece si glissa e ci si usura nell’infelicità, «triste scienza dell’essere umano», costretto da convenzioni e piccole superstizioni. Dall’incauto scardinamento delle prime si può finire nella sventura, dall’accettazione delle seconde si rimane appese alla fatalità impotente. Nel mezzo, suggerisce Alice Rivaz, si fanno comunque discrete scoperte. Sono zone aride eppure frequentatissime, lì si può maneggiare la propria codardia, il proprio patetismo, il proprio «donchisciottismo». Dirsi che comunque un poco di coraggio a disfare le cose ci vuole e che spesso non lo si ha. Si arriva allora a considerare il limbo sentimentale come una forma di separazione proficua. È un’esperienza duratura, questa della esitazione, in cui ciascuno dei due sessi ha una propria capacità espansiva.

MENTRE IL MALINTESO maschile ha portato all’esercizio del potere come modalità coercitiva con esiti nefasti (Attila, Nerone, Hitler eccetera), ciò che invece è concesso alla protagonista del diario è una vista speciale che allarga interstizi angusti, solleva da una coltre di compiti, illumina poiché c’è un arretrare del troppo buio e pieno: «Quando restiamo sole riusciamo di nuovo ad addomesticare quello che ci sfuggiva. Almeno, per me è così. Quando sono sola, è come se mi fossero restituiti alcuni poteri che ho perduto smettendo di esserlo. Mi basta un richiamo perché tutto ritorni, come se attorno a me non vi fosse altro che uno spazio libero, senza ostacoli, senza muri, e io ne fossi il centro, un polo magnetizzato e magnetizzante, con il ritrovato potere di attirare verso di me ciò che credevo di avere perduto». È uno stato instabile e precario ma pulsante, pronto alla trasformazione.

C’è forse una somiglianza, un’alleanza segreta che si intuisce leggendo altri romanzi svizzeri di lingua francese degli anni Quaranta. Per esempio, Temps alternés (unica opera narrativa della filosofa Jeanne Hersch che nel 1942 dà alle stampe questo strano e splendente oggetto letterario, tradotto in Italia nel 2005 da Roberta Guccinelli e introdotto da Roberta De Monticelli, ovviamente ormai introvabile). Hersch, che scrive una lettera a Rivaz solo nel 1951, ha più di una tangenza con alcuni elementi: il Primo amore, scelto per il titolo, si intreccia con l’attesa del proprio marito partito in guerra a cui però la protagonista vuole confessare cosa sia stata per lei la passione vera, quella per un uomo più grande quando ancora era adolescente. Anche per lei la solitudine acquista una «perfezione» nel corpo, come la signora Bornand anche lei si alza e si china per toccare gli oggetti, parla, scrive, esce, «sempre perché una persona reale o un oggetto reale possano sostituire la persona o l’oggetto immaginario». E perché è dalle relazioni che la temporalità si incarna e si fa materica. Sono tutte donne che si stanno preparando a un appuntamento con il taglio della storia, eppure sanno già distinguere il passato dal futuro.

SANNO DISCERNERE la «minuscola ora» di cui parla Hersch nell’istante della scelta. Lo stesso istante di Théoda (1944), protagonista del romanzo di un’altra scrittrice svizzera come Corinne Bille con cui Rivaz, proprio nel ’47, intrattiene una corrispondenza. O ancora Monique Saint-Hélier per cui Rilke, citato anche da Rivaz, fu cruciale – non solo per la sua confidenza poetica con «le api dell’invisibile». Per finire con Catherine Colomb, ugualmente in contatto con Rivaz, che nel 1945 dà alle stampe Châteaux en enfance lavorando sulla memoria e gli stravolgimenti dello spazio narrativo. Come tutte le genealogie critiche, stanno oltre i confini geografici ma rispondono alla vicinanza dei corpi e delle esperienze. Spesso sono più semplici di come le immaginiamo. In effetti «sì, – dice Jeanne Bornand con altèra ironia – gli uomini dovrebbero stare in guardia. Dovrebbero pensare più spesso alle api, alla pace degli alveari. Al prezzo che si paga per la pace degli alveari».