Giunge molto a proposito la visione che Valerio Binasco propone, per il teatro stabile di Torino, di uno dei titoli più famosi di Eugene Ionesco, Le sedie (oggi e domani ancora in scena al Vascello), a ridare vigore e senso contemporaneo a una intera famiglia di testi e autori che sono stati etichettati per più di mezzo secolo dentro una formula. Ionesco aveva scritto quel testo nel 1952; una decina d’anni dopo usciva Il teatro dell’assurdo, in cui il critico Martin Esslin (nato a Budapest, cresciuto a Vienna, e poi a Londra divenuto responsabile del teatro per la Bbc) raggruppava sotto quel titolo/etichetta le opere di autori disparati, da Ionesco e Beckett a Pinter e Genet, gli ultimi due successivamente e giustamente «emendati» da quella definizione.

NON SI PUÒ MUOVERE alcuna accusa a quei teatranti, anche di alto livello, che usarono allora quei testi per mettere in ridicolo la «assurdità» di uno sviluppo postbellico che trasformava usi, abitudini e mentalità in una apparente follia, o forse solo incapacità di dare una ragionevole forma al nuovo che incombeva, e a cui nessuno sembrava preparato. Tanto più nei comportamenti quotidiani, di cui quei testi mostravano impreparazione e incertezze anche oltre il limite del ridicolo. L’assurdo insomma come chiave per la risata. Oggi quella inesperienza è superata da ben altre inadeguatezze, e quei testi rivelano possibilità di scavo più forti, e crudeli, delle insicurezze di allora. Binasco prende così un classico «dell’assurdo» e ce ne offre la partecipazione in una cerimonia desolatamente tragica. Senza forzature, ma scoprendo povertà e insensatezza, e illusioni perdute, di una convivenza allo specchio analitico della quotidianità. Quelle due creature, lui e sua moglie chiamata quasi per contrappasso Semiramide, polverosi e svampiti, «fingono» di vivere una vita di società.

IN UN SALOTTO di detriti fangosi dove le molte sedie, tutte sgangherate e ognuna di un diverso «stile», si affastellano in una immaginaria adunanza di potenti e autorità, mentre restano concretamente e desolatamente vuote, senza impedire tra i due un chiacchiericcio, bacato e inarginabile, di convenevoli, complimenti e «ricordi». La regia di Binasco toglie il velo a quelle illusioni. I due attori che impersonano i due vecchi (Michele De Mauro e Federica Fracassi) rinunciano coraggiosamente a ogni riconoscibilità, intabarrati nei loro stracci d’antan (per lei anche un boa di struzzo spennacchiato, per lui una gabbana sdrucita), e una modulazione continua della voce. Una bellissima prova per entrambi, che può gelare il cuore allo spettatore. Col chiacchiericcio infinito, che si placa e ferma il tempo, per sempre, nel gesto mano nella mano con cui si lasciano volare nel vuoto dalla finestra. Che rovescia oggi il senso di quell’originario «assurdo».