In un certo senso pare che l’ultima frontiera del cinema possibile sia quella di eliminare l’immagine o almeno di nasconderla allo sguardo. Presentato a Locarno (in Signs of Life), e in concorso al Filmmaker 35 di Milano, appena concluso, Machine Gun or Typewriter?, il nuovo lavoro concettuale di Travis Wilkerson è una digressione possibile sulla dissoluzione della vita e dell’amore in una Los Angeles tragicomicamente apocalittica, un delirio che spazia tra l’analogico e il digitale aggirando in modo molto intelligente l’immagine stessa.

 
Tutto parte dalla ricerca disperata di un uomo tormentato che nella giungla caotica della città perde il suo amore. Il mezzo che sceglie per iniziare questa caccia è la trasmissione illegale di una radio pirata. Sullo sfondo L.A. e la sua guerra bizzarra e futurista, apocalittica e dispersiva. La voce dello stesso Wilkerson (de)scrive il lungo flusso che dalla coscienza abbraccia l’esistenza di un mondo e di un umanità oramai irriconoscibile, dove lui pare essere l’unico in grado di parlare.

 

 

Lo vediamo sempre e solo dietro un microfono, mentre racconta questa odissea, e la sua sembra essere realmente in una diretta, in cui ogni pausa implica uno sforzo reale di trovare le parole precise perché il collasso è vicino. Le immagini che si susseguono provengono da uno scrigno di memorie del 900: scene di guerra dal Vietnam alla Raf, mappature della stessa città come di un amore estinto con piani lunghissimi e desertici, ripetizioni ossessive.

 
Wilkerson realizza film nella tradizione di un cinema tra la terzietà e il futuro, quasi nell’oblio della sua forma creativa unitaria che lo porta a curare ogni traccia delle sue opere, sposando la forma con la politica in modo indistricabile. In questo, debitore fin dal titolo dell’ultimo Majakovskij, alterna sguardi impossibili su Los Angeles in un montaggio visivo e sonoro che non si riferisce solo ai passaggi significativi della storia radicale del ventesimo secolo, ma che cerca in tutto ciò l’amor fou: nel contemporaneo, infatti, l’amore è anche una questione terribilmente politica.

 
Così il monologo diventa un resoconto della radicalizzazione del misterioso Wilkerson ironico verso la propria incarnazione di un romantico che trova i suoi principi etici e militanti attraverso il cuore.

 

 

La furia anarchica e iconoclasta che appartengono al regista non fanno altro che definire la maturazione di consapevolezza dell’uomo ai tempi della sua possibile definitiva dissoluzione, e i ringraziamenti finali a Chris Marker e Steve Albini, appaiono come un manifesto programmatico e linguistico verso le infinite nuove possibilità della narrazione.

 

 

Dunque meglio una macchina da scrivere o una pistola? Solo nella continua ridefinizione dell’immagine pare esserci una possibile risposta.