A volte c’è bisogno di sapere con certezza che alcune cose non cambieranno: è un’esperienza di rassicurazione fondamentale a cui la letteratura può dare accesso. Succede con Milena Agus quando si reincontra – in ogni romanzo – il suo sguardo docile e spietato, la sua scrittura morbida e accattivante, serenamente ineccepibile.

NEL CASO di Un tempo gentile, la sua ultima opera edita da Nottetempo (pp. 197, euro 16), Agus offre anche una vittoria. L’autrice riesce nella prova difficilissima di trasformare un tema politico enorme e doloroso come quello dei migranti in una storia semplice, a partire dalla narrazione immediata di alcune scelte e sentimenti. Non è complicato, infatti, discernere chi è disposto all’accoglienza e chi, al contrario, teme gli stranieri e si oppone a ogni forma di condivisione e di scambio. E ancora più semplicemente, ci sono persone che si fanno conquistare dal desiderio di ovviare alla routine e alla solitudine, più che dai buoni sentimenti. Questo è ciò che succede alle signore di un «corno di forca di paesino» nel campidanese, in Sardegna, quando arrivano «gli invasori», dirottati lì per qualche errore in attesa di poter approdare alla vera Europa.

DOPO UN PRIMO MOMENTO di diffidenza, «le vecchieggianti» si fanno vincere dalla curiosità. Il loro è un villaggio svuotato e offeso dalla bruttezza delle costruzioni in gres, in cui i giovani, i loro figli, se ne sono andati e non amano tornare, neanche a Natale: «chi secondo noi non aveva avuto nessun motivo per emigrare, ci aveva detto a suo tempo di voler semplicemente cambiare aria, qui si sentiva soffocare».
Cedendo alla tentazione così semplice, appunto, e irresistibile di vedere «gli altri» e che faccia hanno, queste donne iniziano ad andare al «rudere», il casolare abbandonato dove sono accampati i migranti dalla Siria e dall’Africa e i volontari. Per poter frequentare «gli invasori» litigano duramente con buona parte della popolazione impaurita e ostile, si oppongono per la prima volta ai loro mariti: «sulla coltivazione delle biomasse e sulla monocoltura dei carciofi non eravamo d’accordo, e infatti si erano rivelate un fallimento. Eppure non glielo facevamo pesare. Invece adesso, dopo l’arrivo dei migranti, fra mogli e mariti non c’era un solo argomento di cui si riuscisse a discutere senza azzuffarsi».

Nel romanzo però non troviamo derive politiche o retoriche e non c’è nelle «vecchieggianti» nessuno strascico di pietà, è poca anche la compassione. Ciò che queste donne desiderano e a cui non possono rinunciare, a nessun costo, è la vita che è finalmente tornata in paese.

CON L’ARRIVO degli «invasori», ci sono canti e cibi sconosciuti, musi lunghi ma di uomini stranieri, un neonato dopo tanto tempo, donne giovani e bellissime, c’è un nuovo dio. Incontrano Said e Saida Amal, il Professore, l’Ingegnere, Lorena, Robin, Mahmoud, Naima. Frequentano per la prima volta la casa delle Dame, Lina. Possono parlare ancora di nuovi incontri e amori infelici, fanno sogni erotici, che poi si raccontano prendendosi in giro quando rientrano a casa la sera dal rudere. Agus sceglie di narrare a partire dall’unico punto di vista per lei possibile, quello del «coro delle paesane, fra cui la voce narrante», non attuando rimozioni. Le donne del paese, le lettrici e i lettori del romanzo verranno a sapere della disperazione e della violenza che hanno spinto gli «invasori» a lasciare la loro terra. Sceglie però di non appropriarsi del loro dolore, ma di dare voce alla gioia che «le vecchieggianti» hanno di incontrarli.

SI LEGGE SPESSO di comunità e di spopolamento, specialmente riguardo molti paesi del sud Italia e non solo. Questi posti abbandonati hanno, insieme a un fascino quasi velenoso, la caratteristica di stimolare la curiosità: com’era quando ancora ci vivevano tante persone? Come sarebbe se in quelle strade vuote ci fosse vocìo e i panni stesi ad asciugare? «Le vecchieggianti» in fondo hanno avuto solo la fortuna e la sapienza di fare un po’ di spazio, in tutto il loro vuoto.