Ankul Chandra Das, un pescatore del villaggio di Sonaogon nell’isola di Gosaba, una delle isole della foresta del Sundarban, spinge la sua piccola barca arenata tra le fangose rive del fiume. Oggi non andrà a pescare perché il dipartimento forestale gli ha confiscato la sua licenza temporanea per la pesca. Da quando le disposizioni sulla conservazione ambientale hanno iniziato ad alterarsi, un nuovo conflitto socio ambientale ha iniziato ad espandersi in quel che oggi e considerato uno dei paesaggi più complessi al mondo. L’immenso arcipelago delle foreste del Sundarban, dichiarato Patrimonio dell’Umanità UNESCO dal 1987, si estende tra il mare e le pianure del Bengala, separato a metà dai confini territoriali tra India e Bangladesh. La parte Indiana si allunga per più di trecento chilometri, dando vita a uno dei più grandi delta, formato dagli affluenti del fiume più sacro al mondo, il Gange.

NEL 2007, CON L’AVVENTO di nuove disposizioni per la protezione delle tigri, la riserva ha iniziato ad espandersi creando una zona inviolabile, in cui l’accesso alla pesca o altre risorse è completamente proibita. Un’altra zona invece chiamata cuscinetto, dovrebbe garantire diritti alle comunità del luogo, e quindi assicurare agli abitanti l’accesso alle loro risorse. Ma le normative in vigore sono molto restrittive e contraddittorie. Infatti la zona cosi detta «cuscinetto» non garantisce il fabbisogno alla numerosa popolazione, che ha bisogno di spingersi verso la zona protetta per svolgere la sua attività. Chandra Das, mi parla della disputa che si svolge intorno al «Certificato di Licenza di Navigazione», un documento che autorizza l’attività di pesca. Spiega: «Poiché io non sono in possesso del certificato, se voglio pescare ho bisogno di prendere in concessione la licenza, che mi viene concessa temporaneamente a un prezzo di circa 20,000/25,000 rupee all’anno (300/350 euro)». Infatti sono solamente 713 il numero di licenze distribuite per una popolazione di pescatori che si stima raggiunga la cifra di 52.917 solo nel distretto sud delle 24 isole. La maggior parte delle persone è obbligata a intraprendere l’attività di pesca senza avere nessun permesso, rischiando ogni giorno di dover pagare una multa o essere vittima di estorsioni e abusi da parte del corpo forestale – chi è fortunato torna a casa dopo aver pagato una «tangente» alle guardie, che molto spesso equivale alla pesca dell’intera giornata. Mentre altre rischiano quasi la vita, come è successo il 16 marzo 2017, quando un peschereccio con a bordo 28 persone fu avvistato dalla pattuglia forestale che ha prontamente deciso di far rispettare la «legge» capovolgendo l’imbarcazione e lasciando in mare uomini, donne e bambini. Le vittime che sono state soccorse in tempo debito sono state trasportate in ospedale e hanno anche dovuto sostenere i costi per le cure mediche, negate dal dipartimento forestale.

I diritti all’accesso alla pesca cosi come ad altre risorse disponibili nella foresta quali il miele, il legname, e la raccolta di altre piante medicinali, sono riconosciuti dalle disposizioni della Forest Rights Act, una legge varata nel 2006 che riconosce legalmente i diritti comunitari delle popolazioni forestali e indigene, assicurando l’usufrutto delle terre, l’utilizzo delle risorse e il diritto a proteggere e conservare la foresta. Questa legge che potrebbe garantire sussistenza e benessere ad una popolazione di circa 4 milioni di persone che vive nelle zone forestali, continua a non essere riconosciuta perpetuando quelle stesse privazioni e violazioni tipiche del periodo coloniale.

NUMEROSI AMBIENTALISTI argomentano che il modo migliore per proteggere la biodiversità è l’inclusione delle comunità indigene e locali nei piani di conservazione. Secondo i Mawallis, una comunità indigena del Sundarban, la gestione moderna del bene «foresta» ha alterato l’equilibrio della natura, e le norme di conservazione delle risorse naturali non possono non essere condivise con il popolo indigeno, considerato il vero custode di questa «terra sacra». Secondo l’ambientalista Pradip Chatterjee, presidente dell’organizzazione DFM (Dakshinbanga Matsyajibi Forum), un forum che supporta le popolazioni del Sundarban, la biodiversità del territorio potrebbe essere protetta in maniera differente se si prendessero in considerazione le reali problematiche della zona, come per esempio l’inquinamento causato dai pescherecci a motore, o le numerose barche turistiche che ogni giorno attraversano la zona protetta del parco, senza regolarne l’accesso; mentre vengono proibite le imbarcazioni a remi dei piccoli pescatori.

In Sundarban come in altre zone protette sono numerosi i casi di torture, false incriminazioni, e altri abusi in nome della conservazione ambientale; ma diversamente da altre aree protette dell’India, le popolazioni non vivono all’interno della zona forestale, dove invece in queste ultime la protezione dell’ambiente è diventato quasi sinonimo di sfratto. Secondo un rapporto del 2009, si stima che il numero delle famiglie sfrattate dalle aree protette dagli anni 70 risale a circa 20.000, che corrisponde a 300.000 persone. Dati assolutamente approssimativi che vanno sommati con gli sfratti degli ultimi 10 anni, che sono aumentati in maniera sproporzionata anche per la disponibilità di fondi a livello globale ai fini della conservazione ambientale. Negli ultimi anni inoltre alcuni sfratti sono stati ordinati dai tribunali locali come nel caso della popolazione nomade dei Van Gujjar nel parco di Corbett, nell’Uttarakhand, dove nel novembre 2017 sono stati sfrattati più di 200 famiglie, che ad oggi non hanno ricevuto alcun compenso.

MENTRE LE POPOLAZIONI locali lottano per far riconoscere i propri diritti, il governo è invece incline a investire ingenti somme di denaro nella realizzazione di infrastrutture e progetti di sviluppo turistico; ne è un esempio il progetto di costruzione di un hotel a cinque stelle nell’isola di Jharkali, un’isola del Sundarban, per cui sono stati stanziati circa 5 milioni di euro dallo stesso stato. E mentre lo stato ogni anno incassa più di 8 miliardi dalla gestione del territorio, solamente il 16 per cento viene ridistribuito tra la popolazione. Nelle Sundarban, le norme relative a «la bella foresta», ogni giorno pregiudicano il vivere di milioni di persone, tanto quanto le maree corrodono le loro terre. «È importante trovare al più presto delle alternative e creare nuovi modelli di protezione ambientale nel rispetto degli interessi e della vita stessa degli abitanti del territorio» scrive Ashish Kothari un rinomato ambientalista indiano. Mentre l’ostilità della natura risucchia l’energia delle popolazioni indigene nelle loro fangose terre, lo stato calpesta i loro diritti, e tutto ciò non cambierà finché la politica continuerà ad essere sorda al grido delle popolazioni che vivono in queste terre, privilegiando aspetti economici che portano a salvaguardare solo ed esclusivamente la vita delle tigri per farne di queste ultime un’attrazione turistica.