Il colpo d’occhio al residence di Ripetta di Roma è d’altri tempi. Nella sala ci sono sei file «riservate» su dodici. Gianni Letta è il primo a chiamare l’applauso chiedendosi se il libro di Marco Minniti «Sicurezza e libertà» (Rizzoli), che viene presentato «sia forse una piattaforma politica». Fra i relatori c’è Walter Veltroni e l’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu. In prima fila Massimo D’Alema, e come potrebbe mancare il padre politico dell’autore. Vicino a lui Zanda e Gentiloni, del Pd ci sono i liberal di diverse generazioni da Morando a Calenda, e gli ex dc da Fioroni a Rosy Bindi a Guerini, ma anche Casini, Cicchitto, Gori, Anna Finocchiaro, Marina Sereni, Rosa Calipari, Roberta Pinotti. Le barbe finte sono in giacca scura, ma i carabinieri in uniforme si riconoscono, tutti venuti a omaggiare l’ex ministro dell’interno. C’è l’ex prefetto Mario Morcone che con lui ha lavorato al Viminale. Fra i magistrati, spiccano il procuratore di Roma Pignatone, il procuratore generale della Corte di Appello Salvi.

Minniti non annuncia la sua candidatura neanche stavolta. Ma la folla che riempie la sala – le porte devono essere chiuse per eccesso di pubblico – è un segno inconfondibile, una liturgia da Prima Repubblica, quel pubblico che non viene per vedere ma per essere visto, fatalmente attirato dall’incipiente potere: insomma il candidato non è ancora candidato ma gode del favore dei pronostici.
L’ex ministro finge di schermirsi con frasi però roboanti, «fatemi percorrere la strada della ragione un gradino per volta», ma sa che «il tempo della riflessione si sta consumando», come ammette a Lucia Annunziata che lo incalza.

Quello che Minniti non dice è che il Pd che lo appoggerà, quello renziano, gli fatto capire che il tempo è scaduto, «entro 48-72 ore al massimo devi sciogliere la riserva», perché l’uomo «è complesso» – dicono i renziani con sincera preoccupazione – ma la macchina congressuale parte il 17 novembre con l’assemblea nazionale. Lui ci pensa ancora: «Accetterò se serve per garantire al Pd un percorso più unitario, non se invece dovesse servire per ulteriori frantumazioni», spiega. Walter Veltroni – che nega l’«endorsement» ma è «come se» – si sarebbe speso a lungo e invano per convincere gli altri candidati dem a ritirarsi. «Marco ci sta riflettendo sul serio, sarebbe l’unico candidato alle primarie a non essere un capobastone», spiega Nicola Latorre, amico dai tempi dei «lothar» di Palazzo Chigi, anche loro ieri (quasi) tutti presenti.

Correrà con una linea-guida granitica: che la «sicurezza è un bene comune», la chiave per riconquistare le persone di sinistra ai tempi della crisi della democrazia – «sinistra» usata rigorosamente al singolare tanto per avvertire che le sfumature non solo il forte dell’autore. Nell’era di Trump e dei sovranisti, Minniti respinge senza se e senza ma l’ipotesi che sia una trappola della destra trascinare il discorso pubblico nel crescendo delle «paure». «La sinistra» ha sbagliato quando non ha riconosciuto nei suoi «la rabbia e la paura» e ha considerato questi sentimenti «intelligenza con il nemico». Veltroni si rende conto che per essere una piattaforma politica è un po’ poco persino per un Pd in bassa stagione e suggerisce saggiamente di aggiungere almeno il tema della «giustizia sociale». Annunziata avanza qualche dubbio, ricorre alla storia, cita l’idea della sinistra d’ordine di matrice pecchioliana che «divise il Pci dai movimenti». Chiede se non teme che quest’idea di sicurezza sia divisiva a sinistra. La risposta, formidabile, arriva dal fondo della sala: si alza un anziano signore a contestare la giornalista, «ero nella vigilanza di Lama all’università, la domanda è una provocazione».