Secondo Agamben nel sistema dello Stato-nazione i viaggiatori «illegali» senza documenti rappresentano «l’elemento inquietante soprattutto perché, spezzando l’identità tra uomo e cittadino, tra natività e nazionalità, mettono in crisi la finzione originaria della sovranità».

La questione dei confini e la condizione dei migranti ci obbligano a ripensare l’organizzazione politica del pianeta, tanto quanto lo sfruttamento economico, i problemi di genere e l’emergenza ecologica.

SHARAM KHOSRAVI in Io sono confine (Elèuthera, pp.238, euro 18) mette a nudo le retoriche degli Stati-nazione (e dello Stato tout-court, anche se plurinazionale, come dimostra il caso svizzero) e il perverso sfruttamento dei migranti, trasformando questa ricerca in una vera e propria cartografia etica e politica della società contemporanea.

È UN LIBRO scritto secondo i parametri del formato auto-etnografico, alternando il racconto di esperienze personali all’analisi etnografica propriamente detta. Non è un’autobiografia ma un racconto che – di fronte al tentativo neocoloniale di presentare i muri-frontiera come naturali, senza tempo, negando così il loro essere soggetti al cambiamento storico – mostra come sia indispensabile storicizzare ogni confine al fine di «denaturalizzare e politicizzare ciò che l’odierno regime delle frontiere ha naturalizzato e spoliticizzato».
Khosravi fuggì dall’Iran nel 1986, rifiutando di arruolarsi per combattere la sanguinosa guerra con l’Iraq, e iniziò un’odissea tra respingimenti, carcere e oltrepassamento di confini, fino ad arrivare in Svezia, dove oggi insegna antropologia, mettendo a frutto politico l’esperienza di trasgressione dei «borders».

IL SUO RIFERIMENTO a Walter Benjamin – che, ricordiamolo, si suicidò sul confine tra Francia e Spagna – è molto interessante: seguendo l’esempio della raccolta degli «scarti della Storia», teorizzato in I passages di Parigi, colleziona tutto ciò che è stato trascurato, in modo che quei materiali «entrino in collegamenti significativi e i frammenti aprano una nuova prospettiva sulla storia».

In questo caso si tratta della storia degli «illegali»: «gli apolidi, i richiedenti asilo respinti, gli irregolari, i clandestini». Sandro Mezzadra e Brett Neilson, in Confini e frontiere (Il Mulino, 2014), che in pochi anni è diventato un classico su questi temi, sottolineano che esiste un evidente interesse capitalistico allo sfruttamento di un lavoro migrante privato di diritti e capacità di organizzazione e di lotta.

PROPRIO PER QUESTO è necessario costruire una politica dei confini aperti (o della destituzione dei confini) e della libertà di movimento che guardi «all’insieme della società, per tracciarvi linee di divisione e antagonismo radicalmente diverse da quelle che oppongono gli ‘autoctoni’ agli ‘stranieri’».

Si tratta di sviluppare questa traccia, di censire le pratiche e le lotte e por mano a un lavoro per costruire un immaginario politico che sostenga il progetto di Liberare le migrazioni, come ci suggerisce l’efficace titolo di un libro recente (ombre corte, 2018) di Gennaro Avallone.

SEGUENDO IL PENSIERO di Abdelmalek Sayad, Avallone critica il sistema economico che trasforma le persone migranti in merce utile per i profitti economici e per la propaganda politica, mette in discussione le teorie fondate sul pensiero di Stato, sulla separazione tra nazionali e non nazionali, sulla dissociazione tra emigrazione e immigrazione, riconosce l’autonomia delle migrazioni, il suo scandalo ma anche il prezzo, spesso drammatico, pagato dalle persone per il suo esercizio.

KHOSRAVI SOSTIENE (citando Balibar) che si tratta di svolgere politicamente le implicazioni della tesi secondo cui i confini non sono più soltanto «margini» di un territorio ma sono stati trasportati al centro dello spazio pubblico e della nostra stessa esperienza quotidiana.

Proprio per questo, «Illegal» traveller, il titolo originario del libro, in cui le virgolette segnalano la contrarietà a questa definizione, forse meritava di essere valorizzato anche in italiano, o ancor meglio sarebbe stato opportuno usare il titolo di uno dei capitoli: «Il confine siamo noi», senza portarlo al singolare, per evidenziare l’urgenza collettiva di una politica adeguata.