Nella sua vivace e originale produzione letteraria, la scrittrice cilena Lina Meruane – ormai cinque anni fa – ha dato alle stampe un singolare pamphlet che è motivo di interesse. Intanto per il titolo: Contra los hijos, infine per il contenuto che è più esatto riguardo l’invettiva puntuale contro la «macchina riproduttiva». La Nuova Frontiera, che nel 2013 di Meruane aveva già tradotto il bellissimo Sangue negli occhi, decide di pubblicare adesso Contro i figli (pp. 126, euro 15, traduzione di Francesca Bianchi). Va detto subito che non è un testo contro i bambini e le bambine, né contrario alla vita nel suo significato più ampio, neppure è una dichiarazione d’amore per l’estinzione.

Classe 1970, Meruane scrive questo piccolo e difficile libro in un momento della sua esistenza particolare, si sente cioè a ogni riga che, ciò di cui parla, non è solo frutto di uno scontento sociale quanto, piuttosto, l’esito maturo di qualcosa che le sta a cuore tanto da portarlo a sintesi politica. Lo dice lei stessa in una piccola nota, intorno alla metà del libro: non c’è niente da aggiungere alla sua mancata maternità, alla sua appartenenza a uno stato di «non idoneità», seppure non sia (solo) questa la ragione della riflessione intorno all’argomento.
Con una prosa icastica tiene tra le mani due lembi complessi della questione: la rappresentazione che di una donna con figli o senza si costruisce la società, l’altro è l’esempio di molte biografie, in particolare di scrittrici, in cui diventare madri non è stata una priorità.

A differenza di chi fa della propria convinzione o scelta personale un teorema universale, Meruane per fortuna non vuole fare proselitismi, non chiede condivisione, né risponde alla richiesta propagandistica della fertilità con l’argomento contrario, ovvero quello di non riprodursi come menzione d’onore di una qualche ipotetica superiore emancipazione. Un elemento disturbante di questa grondante retorica sulla maternità – che a più livelli muta attraverso i secoli e che, nel senso comune, va dalle domande più banali del vicinato fino a quelle di parenti e amici – è infatti il punto per cui, per dire della propria libertà a fare e non fare ciò che si desidera, si debba parlare di diritto: a mettere al mondo o meno un altro essere umano. E se ne debba fare una missione, una performance «consumistica» – aggiunge Lina Meruane -, pungolo ossessivo per giustificare l’impresa essenziale, che debba riguardare per forza e su cui invece non è così scontato interrogarsi.

La scrittrice rammenta cose rilevanti che attengono al corredo abbastanza condiviso di una donna e che sono impossibili da ignorare, si sia letterate o meno. Per esempio un certo stigma dell’egoismo che mimeticamente si sposta tra i secoli, le classi e i campi di appartenenza: da Jane Austen fino a Dorothy Parker, Virginia Woolf, Edith Wharton, Anaïs Nin ma anche Alejandra Pizarnik, Flannery O’Connor, la lista di donne che hanno ridimensionato, quando non ignorato, l’esperienza della riproduzione è molto lunga. Quella di chi, come Susan Sontag, ha fatto crescere i propri figli ad altre o altri è ugualmente sostanziosa. C’è poi il caso di chi, per accontentare il proprio compagno, si è resa disponibile ad allevare bimbi di amanti fertili, come capitò a Silvina Ocampo.

In tutto questo lento dipanare un tema così spinoso, appare complicato anteporre le idee alle esperienze singolari e soprattutto dirette. Sarà pure scontato ricordarlo, tuttavia uno dei guadagni del femminismo è proprio la decostruzione dell’obbligo, dell’adesione a ogni costo. Soprattutto a ciò che non corrisponde. E lascia molto più libere, il femminismo a cui anche Meruane si rivolge ma tacciandolo talvolta di non aver compiuto bene il proprio lavoro di liberazione, anche di autorizzarsi alle proprie contraddizioni. Nominarle, rigiocarle. È una questione di intimità. Figli o non figli.