Il 30 ottobre dell’anno scorso il terremoto colpiva nuovamente l’Appennino centrale. Non ci furono vittime come quando, in quel terribile 24 agosto, morirono trecento persone ad Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto: la gente aveva ormai abbandonato i paesi. Ma quelle scosse e le numerose altre che si sono susseguite dopo il 30 ottobre hanno devastato gli abitati: le immagini dei paesi del Tronto e quelle di Norcia e di Castelluccio sono entrate nelle case degli italiani e accanto a esse, meno diffuse benché egualmente sconvolgenti, vi sono le immagini di Visso, Ussita, Castelsantangelo, della Valle Castoriana, con le loro straordinarie bellezze distrutte, con le loro macerie in gran parte ancora non rimosse.

Oggi però emerge, nascosta dalla giusta necessità di dare assistenza materiale alle persone e di procedere alla ricostruzione fisica dei nuclei abitati, la progressiva, profonda sfiducia dovuta agli ostacoli burocratici per la lontananza da casa.

Il rischio drammatico è di assistere alla lenta agonia di un intero territorio, anche se si accompagnerà a una ricostruzione che per quanto rapida, come viene promesso, durerà lunghissimi anni e, forse, alla fine giungerà troppo tardi.

Occorre offrire una prospettiva in grado di coinvolgere subito sia i singoli cittadini sia i rappresentanti delle istituzioni locali; la prospettiva non può essere solo quella del ritorno perché nell’attesa si consolida una lontananza che rischia di trasformarsi in esodo definitivo; la prospettiva non può essere nemmeno il rafforzamento del tessuto comunitario a cui si fa spesso riferimento perché questo è solo uno strumento sia pure fondamentale. La rinascita – non la mera ricostruzione fisica – deve essere legata a un’idea di futuro e a progetti concreti e coinvolgenti.

Nel territorio insistono due parchi nazionali: il Parco dei Monti Sibillini, dove quasi tutti i comuni sono stati gravemente colpiti, e il Parco del Gran Sasso e Monti della Laga. Si tratta di un territorio ricchissimo di natura, ma anche di arte, di architettura, di storia, di tradizioni: alcuni aspetti, come i paesaggi e la gastronomia, sono particolarmente rinomati; altri, come i beni artistici e quelli archeologici, sono poco noti o addirittura quasi sconosciuti.

Ebbene tra le tante voci che si sono levate in questo anno, è sempre mancata la voce dei parchi, l’idea di parco. Perché coloro che avrebbero dovuto e potuto portare la voce dei parchi – gli stessi Enti parco, il ministero dell’Ambiente a partire dal ministro, Federparchi che dei parchi dovrebbe essere rappresentante – sono rimasti muti o, ed è peggio, del tutto irrilevanti? Eppure proprio l’idea di parco oggi può offrire una grande prospettiva per la rinascita.

Nel segno dell’armonia e dei valori – dell’ambiente, del rapporto profondo tra la natura e la persona umana, i valori di uno sviluppo che trova la sua anima nella conservazione delle risorse naturali e culturali, nella valorizzazione delle tradizioni e delle culture locali – ed è un’idea che non può non guardare al futuro: richiede soluzioni tecniche innovative di altissimo livello che comportano un’opera di formazione culturale e spesso di trasformazione del modo di pensare e di gestire il territorio; esige inedite forme di partecipazione.

In questo quadro i parchi rappresentano un laboratorio strategico dove sperimentare modelli tendenzialmente validi per tutto il territorio.

Perché allora questa idea non è riuscita ad affermarsi? Occorre un’onesta autocritica: chi di noi è impegnato sul fronte delle aree protette non è riuscito a comunicare il significato che oggi hanno i parchi, distratto da un dibattito certo importante, ma oggettivamente limitato, quale è quello che riguarda le modifiche della legge quadro sulle aree protette.

Stiamo così perdendo una straordinaria occasione per contribuire in maniera determinante alla rinascita di quella parte della montagna italiana così preziosa e così martoriata.