Ogni anno si rinnova il rito all’interno del Carcere di Volterra. Centinaia di spettatori attraversano i pesanti cancelli per condividere l’utopia di quei detenuti-attori devoti al teatro. L’officiante è Armando Punzo che da trentuno anni offre percorsi di fuga intellettuale e artistica e motivi di resistenza e rinascita a decine di persone recluse all’interno di quelle mura. È la Compagnia della Fortezza, una compagine multiforme in cui si incrociano etnie, culture, religioni, apprezzata da molti anni – e le uscite in tournée contribuiscono alla sua conoscenza – anche da quanti non si avventurano sulle salite volterrane per raggiungere la cima più alta dove svetta l’imponente struttura medicea. Qui dentro il pubblico arriva solo nei pochi giorni di spettacolo, ma il lavoro di Punzo con gli attori detenuti (con Carte Blanche e Cinzia de Felice) scorre lungo tutto il corso dell’anno (ne dà conto ora Un’idea più grande di me, il libro di conversazioni con Rossella Menna, edito da Luca Sossella. E i risultati sono sempre sorprendenti. Anche questa volta con Naturae, presentato come ouverture di un allestimento che si completerà forse il prossimo anno. Ma gli spettacoli di Punzo si distaccano spesso da una bloccata finitezza e potrebbero essere tanti e tutti diversi con lo stesso titolo, tanto è il materiale sperimentato, provato, prodotto sull’oggetto della ricerca, in un determinato periodo.

COME pure il regista rifugge un filo narrativo conseguenziale, per seguire un flusso di immagini visionarie ed evocative. La profondità dello scavo quotidiano dell’animo umano che il regista compie insieme al gruppo di attori, passa attraverso letture e scritture, in cui ciascuno si trova a guardarsi nell’altro, mentre compie il proprio processo di introspezione. Senza soluzione di continuità questa ricerca attinge a fonti letterarie prima approfondite e poi abbandonate, ma che restano latenti per riemergere prorompenti.

DOPO Shakespeare e Borges, per Naturae (ultima replica oggi pomeriggio) Punzo non ha preso un testo di riferimento, né i personaggi sono reali e concreti, ma fluttuano eterei tra un corpo e l’altro degli «interpreti». Ne nasce una dimensione spirituale, anzi ciò che qui si ricerca è proprio la spiritualità. Il distaccarsi da ciò che si è e si ha per raggiungere l’armonia, lo stupore, l’innocenza… Siddhartha di Hesse non è lontano. Quando il pubblico attraversa l’ultimo cancello e arriva nel cortile ad accoglierlo trova Punzo-Lui con il Bambino per mano, a riprendere il discorso dall’ultima scena di Beatitudo, dello scorso anno, interrogandosi sul perché siamo qui e dove vogliamo andare. Inizia così un viaggio che porta attori e spettatori dentro spazi mai usati in trent’anni di attività, metafora di un percorso sconosciuto, difficile ma necessario, che nessuno vorrebbe compiere, come nel Verbo degli uccelli del poeta persiano Farid ad-Din Attar – riferimento testuale forte per tutti i novanta minuti di spettacolo.

LO RITROVIAMO nel cinguettio dei due uccellini in gabbia che rimbalza nel tappeto sonoro di corde e percussioni, e nei costumi belli e pesanti che raccontano l’operosa artigianalità vissuta in carcere che affianca la pratica attorale. Motivo delle reiterate richieste di essere riconosciti come teatro stabile. Nel chiarore abbacinante compaiono velieri sulle teste e schiere di sufi si intersecano lente e ritmate, mentre nelle celle sotterranee gigantesche mani accolgono i camminanti. Fino a quel sudario che bagnato lascia comparire un corpo di donna.