L’articolo di Valentino Parlato pubblicato su questo giornale giovedì 11 agosto solleva alcune questioni sostanziali riguardo alle categorie con cui proviamo a leggere il nostro tempo, caratterizzato dalla crisi dei partiti e da fenomeni molto preoccupanti di disaffezione democratica. A differenza del passato, sottolinea Parlato, la crisi non produce quella «straordinaria vivacità culturale che nasceva dalla crisi e ne approfondiva le cause». Come non essere d’accordo?

Chiedersi come oltrepassare la “morte della politica” (l’espressione, di Alberto Burgio, è stata evocata sempre su questo giornale il 4 agosto) e ripensare la politica quale spazio di speranza per il miglioramento della vita di milioni di persone significa in primo luogo sottrarla al provincialismo del tempo presente che spesso troviamo in molte narrazioni dominanti.

E’ necessario far emergere le connessioni fra gli l’attualità e la continuità di filoni culturali che riteniamo tutt’altro che esauriti. Ad esempio, se condividiamo la diagnosi relativa alla crisi dei partiti, chiediamoci quali rapporti essi oggi abbiano con i soggetti sociali che dovrebbero rappresentare. Sappiamo che la storia del movimento operaio è connotata dalla dialettica a volte difficile, ma feconda, fra partiti e altre espressioni di soggettività politica, quali i movimenti e gruppi di pressione. Forse oggi la percezione della crisi dei partiti origina anche dalla convinzione diffusa che essi siano o debbano essere i monopolisti della soggettività politica. Noi siamo di diverso avviso.

Prendiamo ad esempio le insorgenze di movimenti critici nei confronti della globalizzazione neo-liberista. Se rimaniamo sul piano delle ‘narrazioni’ dominanti, questi fenomeni meritano una citazione solo se e quando infrangono palesemente le regole dell’ordine costituito e sono presentati quali insorgenze sporadiche e improvvise senza storia e, pertanto, senza futuro. In realtà, tali movimenti non sono affatto sporadici, bensì si innestano in filoni di cultura politica molto rilevanti nella storia delle democrazie occidentali, avendo le proprie radici nei processi di emancipazione e di ampliamento della cittadinanza che hanno caratterizzato i decenni passati.
A loro volta, i movimenti degli anni Sessanta e Settanta non nascevano dal nulla, bensì affondavano le proprie radici in fermenti, pacifisti, ambientalisti e femministi, presenti già negli anni Quaranta del Novecento, sviluppati sovente nel grembo degli stessi partiti della sinistra o, comunque, non in opposizione ad essi (si veda Marica Tolomelli, L’Italia dei movimenti, Carocci, 2015). Osservando la realtà dei nostri giorni, sembra che dopo il grande ciclo delle mobilitazioni ‘altermondialiste’ che connotarono il cambio di secolo, la ribalta politica sia stata sostanzialmente desertificata dalle politiche repressive dei governi. Eppure, la realtà sociale è connotata anche dalla presenza di molte persone che danno vita ad un agire sociale politicamente orientato di cui i media danno pochissimo conto.

Possiamo scegliere, quale esempio fra i diversi possibili, il fenomeno del ‘consumerismo politico’ attraverso il quale gruppi di cittadini hanno deciso di spostare la lotta politica dalle strade ai negozi, puntando a fare politica attraverso strategie di boicottaggio e acquisti mirati. Sono fenomeni dotati di un proprio spessore storico e politico: la repressione dei movimenti di inizio millennio (che, come è noto, ha visto a Genova nel 2001 una gravissima violazione dei diritti) non ha comportato solo ripiego nel privato.

Fra le possibili risposte adattive dei cittadini attivi c’è stato anche l’incremento di pratiche sociali diffuse, come, ad esempio, quelle incentrate su scelte di consumo, mosse dall’assunto secondo cui “ogni volta che si acquista qualcosa, si vota”. I Gruppi di acquisto solidale (GAS), che negli anni Novanta erano una decina, oggi sono un migliaio in tutta Italia, solo per rimanere a quelli censiti formalmente, creano solidarietà fra i membri dei gruppi di acquisto che condividono criteri etici, sociali ed ambientali legati alla produzione e al consumo di beni (si veda Paolo Graziano e Francesca Forno, Il consumo critico, Il Mulino, 2016). Questi gruppi agiscono sulla base di una cultura politica e, in un’epoca di rimozione del conflitto e di narrazione del mercato quale spazio naturale, hanno l’indubbio merito di identificare il mercato stesso come luogo di lotta politica, oltre che di scambio sociale. Sono gruppi che fanno politica, quotidianamente.

Molti altri sono gli ambiti in cui oggi si articolano preziose iniziative di cittadinanza attiva (per una panoramica, vedi Giovanni Moro, Cittadinanza attiva e qualità della democrazia, Carocci, 2013): si tratta di preziosi “mondi vitali” senza i quali la nostra società sarebbe più povera, vulnerabile e insicura. In altri paesi, Grecia e Spagna, ad esempio, tali iniziative hanno trovato alcuni canali di azione politica significativa anche dal punto di vista elettorale, dando linfa a nuove formazioni partitiche.

In Italia, a parte alcune liste civiche e l’attenzione del Movimento Cinque Stelle, non è (ancora) successo. Eppure, come dare rappresentanza politica nazionale a questo capitale sociale – ed espanderlo ulteriormente – dovrebbe essere il nostro rovello quotidiano. Anche, o forse soprattutto, da qui si deve partire per ispirare un cambiamento radicale alle politiche neoliberiste e far rinascere la politica.