Prima che scrittore, Machiavelli è stato soprattutto un personaggio che, nel corso della sua secolare fortuna, ha indossato diverse maschere. Quella di spregiudicato suggeritore di tecniche politiche per raggiungere il potere; di chi avrebbe dato dignità di scienza alla politica separandola dalla morale e dalla religione; di chi avrebbe considerato la politica un’arte informata a una non ideologica conoscenza della natura umana e della storia. Solo in tempi più recenti si è puntato anche a restituirgli una fisionomia d’autore inserito nel proprio contesto culturale.

RARAMENTE LA CRITICA ha innestato il Machiavelli personaggio all’autore. Il libro di Carlo Ginzburg, Nondimanco. Machiavelli, Pascal (Adelphi, pp. 242, euro 18) è un esempio di tale innesto – segno che filologia e ricezione di un’opera non necessariamente si escludono. Nondimanco, parola che ricorre spesso nell’opera di Machiavelli, è l’elemento più filologico del titolo, mentre Pascal, la cui vista accanto a Machiavelli fa sulle prime strabuzzare gli occhi, riguarda la ricezione. Ginzburg precisa che fra l’autore del Principe e quello delle Provinciali il legame è giustificato dal fatto che entrambi fanno parte dell’ampia costellazione della «teologia politica» informata all’eccezione, miracolo, caso singolare che si impone sulla norma.
Scopriamo così un Machiavelli conoscitore della casistica teologica medievale e lettore della Politica di Aristotele, ma commentata da San Tommaso. Della casistica Ginzburg non rintraccia soltanto echi, ma una sistematica elaborazione argomentativa che si condensa nella ripetizione dell’avverbio nondimanco – vera e propria «spia» del caso eccezionale sulla regola.

MA COSA C’ENTRA con tutto questo Pascal, tra l’altro implacabile critico della casistica dei detestati Gesuiti? Il fatto è che Pascal paragona la sovranità politica con il miracolo, cioè con il caso che fa eccezione. (Forse, insinua Ginzburg, Schmitt prende proprio da Pascal il famoso paragone fra «eccezione» e «miracolo» che si trova nel suo celeberrimo Teologia politica). Secondo Pascal, dell’eccezione del miracolo la religione cristiana, a differenza della politica, non avrebbe mai approfittato. Dalla parte di Pascal ciò implicherebbe che la teologia politica si consegni soprattutto come «politica teologica»: sottile, ma cruciale distinzione anche nell’odierno dibattito sull’argomento. Attraverso Pascal, Machiavelli mostrerebbe come lo stato cannibalizza la religione, arrivando all’aberrazione di una politica che si vuole «religione civile». Aberrazione che per Pascal, come fa notare Ginzburg, può essere «nondimanco» necessaria in casi eccezionali a chi governa. Per altri autori come Fabricius dell’Euclides Catholicus, la «religione civile» di machiavelliana memoria può essere addirittura un’opportunità della storia. Ciò sembra confermato anche dalla ricezione hegeliana di Machiavelli analizzata nel libro di Salvatore Carannante, Un Teseo per la nuova Germania. Hegel e ‘Il Principe’ (Aguaplano, pp. 104, euro 14). Qui è in chiave religioso-civile l’eco machiavelliana del ricorso alla «guerra giusta» e alle «armi pietose» in condizioni storiche eccezionali, quali quelle in cui Hegel vede la Germania sotto lo stivale napoleonico, in parallelo all’Italia invasa da eserciti stranieri nel XVI secolo.

GINZBURG INVITA a una lettura «intricata» di Machiavelli non soltanto riguardo ai rimandi testuali, ma anche alla storia dell’impiego delle parole. Esemplari in tal senso sono le parole «arte» e «virtù» che in alcuni contesti dell’opera di Machiavelli veicolano significati diversi da quelli più correnti. «Arte dello stato» per Machiavelli significa soprattutto fare pratico e non più soltanto agire etico. Di conseguenza, «virtù» significa anche potenza, possibilità, virtualità e non più soltanto perfezione morale.

L’INTERPRETAZIONE «intricata» di Machiavelli include la strategia tanto retorica quanto politica del «parlare obliquo» o dissimulato (interessante sarebbe anche un confronto con la Dissimulazione onesta di Accetto). E ciò non solo in Machiavelli, ma anche in chi lo echeggia senza rivelarlo. Così farebbe, secondo Ginzburg, anche Tancredi nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, la cui famosa frase «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» deriva dai Discorsi.