Negli ultimi mesi la politica italiana si è costellata di eventi che le hanno impresso un’accelerazione potente. Se non fosse che il termine è abusato, verrebbe da dire che siamo nel pieno di una fase costituente. Perché è tutto l’assetto dei rapporti tra politica e società che è in fibrillazione accelerata: al capolinea sono le forme di quel postfordismo italico fatto di capitalismo molecolare e concertazione con cui il paese ha gestito la sua lunga uscita dal fordismo e dal sistema dei partiti di massa cresciuti dentro la geopolitica dei blocchi.

Il nodo dello scontro non è oggi tra le «due sinistre» o i «due Pd»: sinistra è oggi uno spazio da ridefinire.

Riguarda invece, direttamente, le forme del rapporto tra politica, statualità e nuova composizione sociale dei lavori. In un bel libro uscito qualche mese fa, W.Streeck ha scritto che il capitalismo dagli anni ’70 non ha fatto altro che «guadagnare tempo». Inflazione, debito pubblico, finanziarizzazione subprime, sono stati modi per rinviare il momento in cui prendere atto che un divorzio tra mercato e democrazia era in atto.

In Italia abbiamo usato i nostri mezzi, peculiari: debito e occupazione pubblica a finanziare la cetomedizzazione dipendente, svalutazione, patto fiscale e territorio messo al lavoro per far crescere il capitalismo dei piccoli come blocco sociale capace di stare sul mercato; concertazione per dare un minimo di vertebre ad un paese il cui ceto dirigente era stato spazzato via dal vento di Tangentopoli.

È stato un successo con cui abbiamo scavallato per un ventennio la fine della grande impresa pubblica e privata, ossatura del boom nel dopoguerra. Ricordo che dai ranghi del capitalismo molecolare è uscito il drappello di medie imprese globali sulle cui spalle oggi si regge la tenuta di larga parte dell’infrastruttura manifatturiera del paese.

Oggi quella finestra storica si sta chiudendo. La «via italiana» al guadagnare tempo è terminata e gli 80 euro o il Tfr in busta paga non basteranno. Dentro il meccanismo europeo e della governance globale di tempo da guadagnare ce n’è sempre meno. Tocca sperimentare la fatica di ripensare un nuovo modello e un nuovo assetto nei rapporti tra società e politica se vogliamo uscirne in piedi. Il fatto è che per un ventennio, la cosiddetta «seconda repubblica», la politica italiana ha vissuto di simulacri delle culture politiche novecentesche: la reinvenzione del comunismo, la socialdemocrazia senza socialismo, il liberismo solo proclamato del centro-destra (visto che le vere privatizzazioni e liberalizzazioni le ha per lo più fatte l’altra parte), la società di mezzo delle rappresentanze a concertare una redistribuzione che già negli anni ’90 era a risorse decrescenti e senza più fabbrica.

Oggi i nodi vengono al pettine e le fibrillazioni si moltiplicano. I quattro eventi politici delle ultime settimane a loro modo esprimono la drammaticità e l’accelerazione di questo passaggio, ciascuno prefigurando una possibile linea di uscita. La via ungherese -più che francese- della lega verde-bruna di Salvini, il radicalismo trasversale di Grillo con un occhio ai beni comuni e l’altro all’anti-immigrazione, la modernizzazione carismatico-tecnocratica di Renzi con il doppio richiamo alle start-up e ai grandi flussi del capitale globale, la rappresentanza dei sofferenti materializzatasi nella piazza della Cgil. Con Berlusconi in mezzo, moderno Re Travicello.

uale via d’uscita prevarrà non sarà questione di vecchio o nuovo ma di chi mostrerà capacità di «connessione sentimentale» con una composizione sociale del paese frammentata e smarrita ma allo stesso tempo desiderosa di ricominciare a mangiare futuro.

Prevarrà il partito della nazione o il partito nazional-populista? Il populismo internettiano e territoriale di Grillo o il «popolo» del sindacato?

Se si guarda a quanto accaduto sabato 25 ottobre a Roma non si può non vedere una discontinuità storica rispetto alla manifestazione del 2002: i 3 milioni di Cofferati volevano essere la classe che poggiando sulla concertazione premeva sulla politica. Il milione della Camusso e di Landini oltre all’aspetto politico, rappresentano soprattutto il sindacato che si fa sociale in crisi, che prova a polarizzare e rappresentare la sofferenza sociale diffusa rispetto all’impatto della crisi.

A San Giovanni c’era ciò che resta della forza propulsiva di Cofferati: pensionati, senza lavoro, tempi indeterminati senza più sicurezze, precari, esodati, ecc. Questo mi pare l’elemento nuovo da capire e valutare nel suo possibile divenire. Il venir meno della concertazione neocorporativa che aveva messo le braghe al paese nel ciclo precedente, rende impossibile riproporre una versione aggiornata dei grandi patti sociali fordisti senza più né fordismo né classe sociale.

È l’eclisse della società di mezzo, per dirla con De Rita. Oggi ci sono i tavoli della «Leopolda» ma sono un’altra cosa: il think-tank del leader. In parte assemblea in parte meccanismo di reclutamento di nuove élite, i tavoli di Firenze sono la chiamata a raccolta delle tribù attorno al leader per costituire il suo cerchio magico. È il nuovo soggetto politico che nasce, non la concertazione.

Un evento costituente di una forma politica la cui vera forza è la capacità del leader unico di ricostruire «in proprio» la capacità rappresentativa dei soggetti sociali da parte della politica oggi in crisi.

A maggior ragione dopo il voto di domenica, è la crisi della rappresentanza, dunque, il tema da affrontare.

Perché se la statualità è sempre più artefice e garante del nuovo capitalismo mercantile e sempre meno centro redistributore delle risorse, la funzione della società politica cambia.

In questo quadro, che alcuni definiscono ormai postdemocratico, a me pare che il tema di fondo della politica sia ricostruire trama sociale, fare società dentro la transizione, ricostruire i tessuti connettivi tra società e politica. Claudio Napoleoni diceva che tra economia e politica va posta la società. Questo è l’unico modo per comporre una frattura tra «sofferenti» e «innovatori» che oggi mi pare molto ideologica, visto che molti degli innovatori, soprattutto se giovani guadagnano, quando va bene, 1.200 euro al mese e i sofferenti sono depositari di una cultura politica e produttiva che ha retto e regge l’industria del paese.

La divaricazione tra questi due bacini di composizione sociale non salverebbe l’art. 18 né servirebbe a «modernizzare» il paese ma aprirebbe le porte alle altre due vie di uscita, probabilmente più capaci di raccogliere un conflitto che in assenza degli argini della rappresentanza da collettivo si fa molecolare.

Se la politica si fa simulacro, gli ultimi giorni ci dicono che occorre tornare a raccontare il sociale e le sue sofferenze.