«Il presidente sceglie i suoi collaboratori guardando Fox News!». Il coro di commenti che ha accolto la nomina di John Bolton a Consigliere per la sicurezza nazionale è tornato spesso sul tema della presidenza/reality show. Il baffuto ex ambasciatore all’Onu con cui Trump ha sostituito H.R. McMaster, è infatti solo l’ultimo di una serie di conduttori, «esperti» o personalità che dal libro paga delle cable news sono passati a quello della Casa bianca. Anche quando non li assume, Trump è in frequente contatto con giornalisti e commentatori del suo canale preferito e ideologicamente più vicino.

Spesso sollecita la loro consulenza politica. Laura Ingram, Eric Bolling e Sean Hannity sono infatti regolarmente citati per posizioni di rilievo nel suo governo, ed è ovvio che The Apprentice e Lifestyle of the Rich and Famous informano l’etichetta di questa Casa bianca più di qualsiasi testimonianza/tradizione presidenziale che l’ha preceduta. In divenire da anni, il cortocircuito tra celebrity, politica e media ha trovato la sua manifestazione più emblematica e tossica in Donald Trump. Un contrappasso da piaga biblica. Ma il fenomeno non è unico, o solo limitato alla destra.

Dopo l’ipotesi Oprah (mediaticamente perseguita con frenetica delizia 48 ore a seguire i Golden Globes), quella di Dwayne Johnson, la corsa di Antonio Sabato in California e le solite voci su George Clooney, è della settimana scorsa la candidatura di Cynthia Nixon per la poltrona di governatore dello stato di New York.
Una presenza molto visibile durante la campagna per il Municipio di de Blasio, la Miranda di Sex and the City ha annunciato la sua sfida a Andrew Cuomo dal quartiere afroamericano di Brownsville, a Brooklyn, mettendo in dubbio il Dna democratico dell’attuale governatore, accusandolo di essere connivente con la corruzione di Albany e al servizio dei super ricchi e delle corporation.

«Spero che i prossimi non siano Brad Pitt, Angelina o Billy Joel» ha ribattuto Cuomo, definendo Nixon una celebrity di serie B. Più pungente la frecciata dell’ex presidente del consiglio comunale, Christine Quinn, che ha chiamato l’attrice «una lesbica senza qualifiche». Quinn – apertamente omosessuale come Nixon – ha poi ritirato l’epiteto. Ma la questione della qualifica rimane, ed è giusto porsela.
Su quasi tutti gli issue (l’educazione è il suo cavallo di battaglia) la sfidante è notevolmente più a sinistra del suo rivale, vicina a de Blasio, con cui Cuomo non va d’accordo. Poste le posizioni del tutto condivisibili, Nixon non ha mai ricoperto una carica politica o lavorato in una pubblica amministrazione. «C’è bisogno di un outsider!» ha detto l’attrice alla platea di Brownsville, echeggiando purtroppo uno slogan motivazionale che potrebbe essere uscito dalle labbra di Trump, o di un 5 stelle.

Ma è veramente possibile che l’unica alternativa alla disillusione nei confronti del processo politico e all’ossificazione/corruzione dei poteri siano dei dilettanti telegenici, preferibilmente con un alto tasso di riconoscibilità mediatica? Quella di Cynthia Nixon è una corsa in salita – Cuomo torreggia con 40 punti di vantaggio (ha passato la legge sui matrimoni gay, dichiarato lo stato d’emergenza per le case popolari). E difficilmente l’aura di Sex and the City (una delle serie che più ha cementato l’immagine di New York come una città per ricchi privilegiati, in bilico su tacchi di Manholo Blahnik) farà presa sugli elettori rurali di upstate.

Ma, a parità di chances, il coverage mediatico sulla sua candidatura è esponenzialmente superiore a quello che avrebbe ricevuto qualsiasi altro sfidante di Cuomo, con le stesse priorità politiche dell’attrice. Il che garantisce che nessuno si farà avanti. «Oprah è capace di evocare empatia. Una cosa di cui questo paese ha bisogno», mi diceva un collega eccitatissimo all’idea di Winfrey for President, come se stesse parlando del casting di una soap. E senza ricordarsi che purtroppo una la stiamo già vivendo.

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