Per fronteggiare la crescente espropriazione di potere giuridico ed economico, attuata da organizzazioni mafiose e da ceti finanziari e imprenditoriali, gli attuali vertici dello Stato sono ricorsi al rimedio costituito da un’anomala collocazione di pubblici ministeri in torri di controllo (Autorità Nazionale Anticorruzione, assessorato comunale delle legalità e simili ) nel territorio dell’illegalità dominante.

Questi avamposti delle guardie togate nelle terre dei ladri creano perplessità sotto due aspetti: da un lato, aggravano il fenomeno di magistrati distolti dal lavoro giudiziario ed inseriti nella gestione di incarichi dell’amministrazione centrale e periferica, con palese violazione del principio della separazione dei poteri prevista dalla Costituzione; dall’altro, i singoli magistrati si espongono al rischio di essere coinvolti, quanto meno per scarsa capacità di vigilanza e di prevenzione, nelle inevitabili indagini dei colleghi togati, con paradossali risvolti negativi nell’accertamento delle responsabilità penali e contabili.

È di tutta evidenza che la presenza delle avanguardie giudiziarie non potrà non costituire un argomento difensivo di ottimo spessore per dimostrare la buona fede del politico e dell’imprenditore che hanno trasgredito le regole, ma sotto il vigile occhio del fuori ruolo giudiziario in missione per conto dello Stato.

Né va sottovalutato che il fenomeno delle carriere parallele di alcuni magistrati, che si sviluppa frequentemente con la decisione del Consiglio superiore della magistratura di concedere collocamenti «fuori ruolo» con la destinazione a funzioni non giudiziarie presso pubbliche amministrazioni, è stato fortemente criticato dal consigliere di Cassazione Aniello Nappi, reduce dall’esperienza di componente dell’organo di autogoverno. Questa anomalia riguarda circa duecento posti, ma coinvolge una popolazione di postulanti ben più numerosa. «E questo crea le basi per un rapporto inquinante della magistratura, soprattutto a Roma, dove c’è la contiguità tra amministrazione della giustizia e politica. Qui la questione dei fuori ruolo si pone come questione morale fondamentale» (Quattro anni a Palazzo dei Marescialli, Aracne, 2014, p. 45) .
La lettura di questo libro – ricco di un’impressionate casistica di deroghe alla legge e alle regole interne – fa sorgere il quesito se la magistratura-impegnata in maniera generalmente encomiabile nella tutela della legalità tra i comuni cittadini e tra i cittadini eccellenti – sia capace di autogovernarsi correttamente attraverso l’organo assembleare previsto dall’art. 104 della Costituzione.

È noto che il Csm è un’istituzione democratica nel senso che i suoi componenti vengono eletti da tutti i magistrati e dal Parlamento in seduta comune e nel senso che nei dibattiti in commissione e nel plenum è garantita la piena libertà di espressione, con conseguente immunità, al pari dei parlamentari. I singoli consiglieri non hanno vincolo

di mandato nei confronti degli elettori e dei gruppi che ne hanno proposto la candidatura.

Nel quotidiano svolgimento della valutazione della capacità professionale dei singoli, della assegnazione dei ruoli dirigenziali, il consigliere Nappi ha dovuto fare i conti con la consolidata regola pragmatica, secondo cui le determinazioni e le scelte espresse con il voto devono essere soggette al principio di maggioranza, nel senso devono essere assunte non secondo coscienza, ma secondo l’indicazione della maggioranza del gruppo di appartenenza. È stato facile rilevare che il voto per vincolo di maggioranza, alias per disciplina di gruppo, risponde alla logica, alla teorizzazione, alla pratica del voto di scambio: io voto uno dei tuoi se tu voti uno dei miei, come la riconosciuta esigenza di risarcire il contraente nei confronti del quale si è rimasti inadempienti…

È vero che all’interno dei gruppi il principio di maggioranza viene applicato con qualche elasticità. Ma è proprio questa elasticità a farne lo strumento fondamentale dei baratti, che sono di per sé occasionali. È appunto l’accettazione del principio di maggioranza a rendere possibili occasionali accordi, ora con l’uno ora con l’altro gruppo, tanto più vantaggiosi quanto maggiori sono i pacchetti di voti disponibili. In questo contesto è nato un goffo e spiacevole episodio che ha avuto inopinata diffusione, nella totale indifferenza delle istituzioni: da una corrispondenza riservata di un componente dell’organo di autogoverno inavvertitamente è volata in rete, il 23.11.2012, una missiva in cui il mittente – pur riconoscendo «più opportuno politicamente piazzare una giovane collega napoletana di Area ad un posto direttivo, sia pure di rilievo minore», auspicava che non si facesse «tuttavia una ingiustizia troppo grossa». Nappi osserva che, pur essendo l’opportunità politica collegata a più criteri (età, territorio, appartenenza ad una corrente), è documentabile che «il criterio dell’ appartenenza è accettato e riconosciuto all’interno dei gruppi consiliari». Che non si sia trattato di un caso eccezionale è dimostrato dal silenzio e dall’indifferenza della corporazione : mercoledì 8 maggio 2014 il medesimo consigliere, in qualità di Presidente della Quarta Commissione del Csm (competente per materia nelle progressioni in carriera), ha partecipato, nella sessione della Scuola superiore della magistratura dedicata all’ordinamento giudiziario, a un confronto a due voci sul tema Standard di rendimento e carichi esigibili…).

Talvolta gli scambi falliscono per una sopravvenuta modifica tattica delle alleanze e più raramente per l’imprevista dissociazione dal gruppo di appartenenza, con reazioni sanzionatorie, come è accaduto proprio a Nappi, la cui espulsione «venne giustificata anche con la dissociazione nel voto per un incarico semidirettivo». La lottizzazione guidata dai vertici delle tre correnti – osserva l’autore – è giustificata con l’esigenza di garantire il pluralismo culturale negli uffici e nell’organo di autogoverno, ostentando di ignorare una realtà ben visibile in magistratura e in tutte le istituzioni: «La pratica della lottizzazione, spacciata per pluralismo, ha impoverito il nostro Paese, privandolo di una classe dirigente adeguata».
In conclusione, poiché è impossibile presumere che la bussola del criterio di appartenenza, impiegato per selezionare e premiare con pratiche spartitorie e preordinate, conduca infallibilmente a beneficiare i migliori, è indubbio il danno degli «indipendenti n.n.» e il pregiudizio dei cittadini cui è sottratta la possibilità di avvalersi adeguatamente della capacità professionale di questi ultimi.