È ormai consuetudine che quando un Parlamento e/o un esecutivo zoppichino e vogliano farlo dimenticare ai propri cittadini, si concentrino sulla cooperazione allo sviluppo. In questo stesso trend, il Consiglio dei ministri ha licenziato una proposta di legge di propria iniziativa che fa rabbrividire.

Da dove nascerebbe la Politica di cooperazione italiana? Non da un vero meccanismo di partecipazione che tenga insieme le mille esperienze civiche di aiuto e di relazione tra comunità che fanno della cooperazione italiana un unicum. La si affiderebbe a una patinata Conferenza (art. 15) convocata dal viceministro apposito, dove potrebbero prendere la parola solo le reti delle «maggiori» organizzazioni rappresentate.

Dalle finalità emerge chiaramente la debolezza dell’impianto politico-culturale della proposta. Si parla di una generica riduzione della povertà, cioè di un effetto, senza ambire ad intaccare la sua vera causa: la disuguaglianza. Non c’è riequilibrio delle relazioni economiche, sociali e biodiverse a partire da una visione condivisa di che cosa significhi vivere dignitosamente nei Nord e nei Sud di questo pianeta che condividiamo. La crisi ambientale non è in agenda, allusa in un generico «sviluppo sostenibile». I fondi per la cooperazione, da un lato, non possono essere distolti per attività militari, ma non si esplicita che non possano essere utilizzati nell’ambito delle cosiddette «missioni di pace».

La cooperazione, poi, resta ben stretta nelle mani della Farnesina, che decide a suo piacere cosa farà nell’ambito delle Nazioni Unite, organizzazioni internazionali, di Ocse e affini, ma anche di banche e fondi dal discutibile operato (art 3-4), rispondendo solo ad un Comitato (art. 20) che cogestisce insieme all’Economia, e a cui invitano altri ministeri solo se lo ritengono opportuno. L’Agenzia (art. 16) che avrebbe dovuto incaricarsi della gestione della cooperazione pubblica e in forma terza, resta di fatto un suo dipartimento esecutivo. Il Fondo unico che dovrebbe alimentare più coerentemente le attività sul campo resta spezzettato tra i ministeri che già oggi lo amministrano, con una accresciuta trasparenza tutta da conquistare (art. 14).

Una tempesta di ciliegine su questa torta imbarazzante, la spargono gli articoli 24 e 26, che si dedicano alla cooperazione dei privati cittadini, e cioè, rispettivamente, delle organizzazioni senza scopo di lucro e di quelle che per loro scopo fanno profitto. Se l’art. 24 investe con grande serietà il Comitato interministeriale del compito di stabilire con apposito regolamento se una cooperativa o un’organizzazione di commercio equo e solidale facciano davvero cooperazione, sia chiaro a tutti che le imprese, invece, entrano insieme agli istituti bancari dalla porta principale nel Sistema Italia. Viene, infatti, riconosciuto loro di poter operare all’estero continuando per nome e per conto del nostro paese a fare profitto e concorrenza – che il dizionario italiano pone come contrario e non sinonimo di cooperazione – purché lo facciano con trasparenza e responsabilità sociale. È pure consentito loro di accedere al Fondo di rotazione per i crediti d’aiuto (art. 7), a fondi aggiuntivi per i loro investimenti. Dicono in molti: possiamo farla discutere in parlamento, questa proposta, e lavorare sugli emendamenti. Ma come si emendano visioni così lontane, che non autorizzano, ad esempio, le organizzazioni dei Paesi che vorremmo aiutare a diventare attori della cooperazione e a percepire direttamente i fondi? Come si emenda un linguaggio da secolo scorso, dove si parla di «aiuti» e di «sviluppo», senza nemmeno mascherarlo, come fa l’Europa, con un aggettivo politically correct, come sostenibile, o inclusivo? Dove sono le donne, le comunità, i volontari? Per noi la cooperazione, al contrario, dovrebbe ripartire proprio da qui.

* Laboratorio Urbano Reset