Un vecchio ebreo si trascina malconcio in una strada dell’Ucraina occupata dai nazisti. Incrocia un ufficiale tedesco che, invece di ucciderlo, si rivolge a lui in maniera tagliente: «Porco». L’anziano, inchinandosi: «Onorato, io mi chiamo Rabinovich». È una storiella della tradizione umoristica yiddish, nella quale il ridere serve a fare riflettere, a indicare la vertigine del potere omicida, gli abissi della negazione della dignità umana. Farsi beffe del male riconoscendolo, denunciandolo, combattendolo: nulla di più lontano dal nobilitare gli stereotipi più sinistri mascherandosi dietro l’intenzione iconoclastica che pretende di «poter ridere di tutto».
Mostrare come si distingue l’umorismo che libera da quello che opprime è uno dei meriti maggiori di Un ebreo contro (Edizioni Gruppo Abele, pp. 127, euro 15), una lunga intervista a Moni Ovadia curata da Livio Pepino, da oggi nelle librerie.

UN RACCONTO DI SÉ che si dipana tra riflessioni e invettive, incontri con maestri e scontri con avversari, tra pagine dell’Antico Testamento e attualità politica, tra «alto» e «basso». È l’affascinante traiettoria di un artista che individua «nel progetto di Karl Marx “a ciascuno secondo il suo bisogno, da ciascuno secondo le sue capacità”» un’indicazione ancora valida, «una sintesi perfetta degli obiettivi dell’organizzazione sociale e della politica». Ovadia è musicista-attore impegnato, nel senso di un engagement autenticamente scomodo, che affonda le proprie radici nel legame fra ebraismo e rivoluzione. Quel legame che si esprime nel linguaggio visionario e incendiario dei profeti «che chiamano al dovere della giustizia sociale e alla liberazione dell’oppresso come prima istanza del messaggio ebraico».

NATO NEL 1946 IN BULGARIA, come quarant’anni prima l’immenso Elias Canetti, Ovadia approda bambino in Italia, in fuga con la famiglia dall’antisemitismo stalinista ormai dilagante in tutti i regimi dell’Europa orientale sino al culmine paranoico, in Urss, del complotto dei camici bianchi del ’53.
Non l’educazione familiare o quella della scuola ebraica milanese, ma l’incontro in età adulta con il maestro di ermeneutica Haim Baharier fa sì che Ovadia «scelga» la propria identità. Quella di un ebreo così profondamente diasporico da considerare «l’esilio la vera condizione di dignità dell’essere umano, perché nell’esilio non contano i lacci e i lacciuoli burocratici, le connotazioni che derivano dall’abitare un territorio, dall’avere un passaporto».
Agli ebrei la terra è promessa, non perché dovrà essere loro prima o poi finalmente data, ma «per imparare a vivere da stranieri fra gli stranieri». Inevitabile, con queste premesse, entrare in tensione con la politica dello Stato di Israele, del quale non è contestato il sacrosanto diritto di esistere, ma le azioni «nazionaliste e reazionarie» dei suoi governi, «le scelte di persecuzione del popolo palestinese».

LA SEVERITÀ di Moni Ovadia è carica del fervore tormentato di chi sta dicendo di non potersi più riconoscere nella propria parte, gridando la necessità di una «radicale separazione, pur sapendo che sarà foriera di dolori, di travagli e lacerazioni». Vale per il rapporto con Israele come, in altri termini, per quello con la sinistra italiana. Alla quale non risparmia critiche durissime, che non autorizzano, però, a trarre conclusioni improprie. Nessun cambio di campo, nessuna intelligenza con il nemico. Le cause da servire restano sempre quelle degli ultimi, degli operai della logistica e dei migranti schiavi dei campi di pomodori. «Io sono e morirò uomo di sinistra». Non avevamo dubbi.