Il velo di incertezza che ammanta il processo indipendentista catalano non dipende solo dal muro contro muro tra il governo statale e quello regionale. E’ il processo in sé ad essere contraddittorio, e questa contraddittorietà è più scoperta che mai tra i conservatori del Partito Democratico Europeo Catalano (PDECat), di cui fa parte il presidente Puigdemont.

Bisogna tener presente lo stress a cui è sottoposta la “ragione sociale” del PDECat, che oltre alla presidenza esprime i ministri più importanti ed il gruppo parlamentare più numeroso, grazie però ad un’alleanza con l’estrema sinistra nazionalista (Cup) e con un altro movimento storico dell’indipendentismo, Esquerra repubblicana.

Proprio Esquerra repubblicana grazie al processo sta recuperando una centralità nella lotta politica catalana della quale non godeva dagli anni Trenta del secolo scorso.

Il catalanismo è un fenomeno politico-sociale e culturale variegato, nonché trasversale all’intera società. Storicamente tradotto in un sistema politico a sé stante, estremamente diversificato rispetto a quello dello Stato spagnolo nel corso della transizione. Perfino il partito comunista, e fin dal 1936, non ha mai avuto formalmente una propria «federazione catalana»: Pce e Psu di Catalogna – caso unico nella Terza Internazionale – avevano entrambi delegati propri al Comintern.

DETTO DI QUESTA capillare trasversalità del fenomeno, della vivacità con cui è propagato dalla società civile, e degli innegabili margini di manovra che al suo interno si sono aperti in passato e si aprono tutt’oggi per la sinistra – maggioritaria nella città di Barcellona e nel suo retroterra industriale – non si può certo trascurare l’egemonia esercitata dai conservatori sul governo della Generalitat. Convergència democratica de Catalunya, poi PDECat (il cambio di nome si deve ai numerosi scandali di corruzione a cui è stato recentemente legato il partito) governa infatti ininterrottamente la regione autonoma dai tempi della transizione, eccezion fatta per una parentesi di centro-sinistra a metà degli anni Duemila.

Il progetto politico che sboccò politicamente nel corso della Transizione in Convergència risale in realtà ai primi anni Sessanta del Novecento. Leader indiscusso ne è stato fino agli albori del XXI secolo Jordi Pujol, espressione del cattolicesimo moderato nazionalista, con solidi addentellati nel mondo della cultura catalanista e della borghesia del principato, che proprio nella decade dei Sessanta iniziava a mal sopportare l’autarchia economica del regime franchista. Il pujolismo ebbe l’indubbio merito di contendere al fascismo l’egemonia sull’alta borghesia catalana e di convertirla, per così dire, alla democrazia. Allo stesso tempo, elaborando un programma economico latamente socialdemocratico, secondo i dettami dell’epoca, Pujol ed i suoi seppero conquistarsi un consenso di massa nella piccola borghesia. Si deve in effetti ai governi di Convergència, oltre che alle spinte dal basso di un movimento operaio e popolare particolarmente agguerrito e ben organizzato, la costruzione di un welfare catalano moderno ed efficiente. Un sistema di protezione sociale che ha retto fino allo scoppio della crisi, quando il governo guidato da Artur Mas, che di Pujol era stato il delfino, si fece portatore degli interessi dell’oligarchia barcellonese ed attuò una feroce politica di retalladas (tagli allo stato sociale e manovre economiche all’insegna dell’austerità) e di repressione dei nuovi movimenti sociali.

Di Mas è rimasta anzi celebre l’accusa lanciata al governo spagnolo di Rajoy di non essere abbastanza ligio nell’applicazione dei dettami della trojka. Venendo all’oggi, l’arringa di Puigdemont di fronte al Parlamento non si è conclusa con una richiesta al popolo catalano di resistere, o al governo spagnolo di trattare, ma, significativamente, con un appello ai grandi gruppi finanziari a continuare ad avere fiducia in lui.

FIN DALLA SUA nascita come movimento socio-culturale, inoltre, il pujolismo, nelle varie declinazioni politiche, si è sempre legittimato come il partito della modernizzazione europeista della Catalogna – la regione, altro pezzo forte della narrazione catalanista, più “europea” nel panorama di complessiva arretratezza dello Stato spagnolo.
Mas prima, e Puigdemont poi, hanno mostrato grande abilità tattica nel porsi alla testa della rinascita del movimento indipendentista dopo la bocciatura, da parte del tribunale costituzionale spagnolo, del nuovo statuto di autonomia. Questo ha permesso al catalanismo conservatore di uscire dall’angolo in cui si era cacciato dopo anni di austerità e corruzione. Ma cavalcando la tigre dell’indipendentismo, ha finito per cozzare contro i pilastri da cui il movimento storicamente aveva tratto forza, ossia l’europeismo e l’appoggio della grande borghesia.

MENTRE LE GRANDI entità finanziarie si sono affrettate, dopo l’1 ottobre, ad abbandonare Barcellona, la commissione europea faceva sapere che una Catalogna indipendente si sarebbe ritrovata fuori dall’Ue, un concetto ribadito anche dal duo Merkel/Macron.

La situazione politica catalana e spagnola pare più che mai aperta a scenari estremamente diversificati – da una progressiva normalizzazione, all’apertura di un processo costituzionale, alla ripresa dell’indipendentismo e successiva tragica reazione da parte del governo centrale. Ma il blocco sociale ed economico che ha puntellato negli ultimi decenni il governo della Generalitat si è espresso chiaramente in questi giorni, ed è difficile immaginare che il governo Puigdemont non ne venga influenzato.