Il tema della sicurezza, in Italia, è giunto in ritardo rispetto ad altri Paesi. Una suburbanizzazione più lenta rispetto ad altri contesti, la tenuta relativa del sistema sociale familista, l’avvento tardivo delle migrazioni in assenza dell’eredità di vasti imperi coloniali, hanno comportato l’irrompere delle questioni relative all’incolumità individuale soltanto all’inizio degli anni Novanta.
È all’ombra di Tangentopoli che i comitati civici e le ronde attecchiscono fino a ridisegnare radicalmente il panorama politico italiano, finendo per giocare un ruolo cruciale nella costruzione delle fortune e delle proposte politiche, una tendenza che dura fino ai giorni nostri.

QUANTO DI EFFETTIVO e di surrettizio possiamo riscontrare nella securizzazione del dibattito pubblico? Stefano Padovano, nel suo ultimo lavoro La sicurezza urbana. Da concetto equivoco a inganno (Meltemi, pp. 184, euro 18), prova a darsi una risposta, nel tentativo di restituire alla questione il proprio significato, al netto delle strumentalizzazioni operate a destra e a sinistra.
L’autore ci ricorda come la sinistra abbia dissipato colpevolmente il suo vantaggio iniziale sulle questioni relative alla sicurezza. Fu infatti in Emilia-Romagna, ovvero la regione rossa per eccellenza, che nacque l’esperienza di Città Sicure.

LA GIUNTA ROSSA (non ancora di centro-sinistra), reclutò Melossi, Pavarini, Mosconi, Pitch, ovvero il meglio della criminologia critica italiana, con lo scopo di elaborare e implementare un pacchetto di politiche alternative della sicurezza. Dal comitato scientifico nacquero proposte innovative, che spaziavano dal coinvolgimento dei cittadini alla riduzione del danno, ponendo l’accento sul decentramento e l’empowerment delle comunità locali, ovvero di un maggior coinvolgimento delle forze di polizia municipale. Proposte innovative, avanzate, che si arenarono su scogli posti trasversalmente e verticalmente al loro percorso. Per esempio, alcune delle teste d’uovo del neonato centrosinistra, si affrettarono a sciorinare quelle statistiche che fotografavano oggettivamente la maggiore propensione a delinquere da parte dei migranti. Ne conseguì la scelta delle amministrazioni dello stesso colore politico di declinare la questione sicurezza a colpi di ordinanze sindacali del tipo di quelle dei sindaci leghisti, con le panchine vietate ai senza tetto e i centri delle città interdetti alle classi pericolose.
D’altro canto, il respiro per una sicurezza alternativa si rivela corto se si misura con un apparato statuale centralizzato che, malgrado la riforma del titolo V del 2001, non prende nemmeno in considerazione la riconfigurazione dei poteri di polizia.

LA RESISTENZA al cambiamento degli apparati di Stato si coniuga con le scelte delle maggioranze politiche di centro-sinistra, che inseguono la Lega e i suoi sodali sul terreno del paradigma legge e ordine, tanto da varare i pacchetti-sicurezza, dei quali quello del 2001 denota un impatto più dirompente (si pensi all’istituzione dei Gom, che si faranno conoscere a Genova…).
Come si esce da questo equivoco, che sfuma nell’inganno nella misura in cui confonde la portata reale di problemi rilevanti? Padovano propone di affidarsi a una riqualificazione del welfare state. Se da un lato non si può negare la questione delle vittime, che rende necessaria l’istituzione di un pacchetto di politiche ad ampio raggio volte alla loro tutela e al risarcimento, dall’altro lato bisogna superare l’approccio contenitivo verso gli autori dei reati.
Alle telecamere, alla mappatura dei crimini, si risponde con la riqualificazione delle periferie, con l’integrazione degli strati marginali. In altre parole, con la politica.