Sino a ieri la politica appariva presidiata dalla tecnica. L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni sembrava aver assunto il volto della tecnopolitica. Le scelte politiche più rilevanti, il modello di sviluppo, le forme della democrazia venivano legittimate in base alla presunta neutralità della tecnica: le regole del mercato, i burocrati di Bruxelles, il governo dei tecnici. Quasi una riscoperta dello Stato neutrale del XIX secolo. Ora come allora un imbroglio.

Dietro il paravento della neutralità della tecnica si sono compiute scelte politiche fondamentali. Il risanamento dei conti operato da Monti non era l’unico modo possibile per rispondere alla crisi, la quale non era (e non è) solo economica, ma anche politica; così come le scelte di natura finanziaria dominati in Europa hanno rinnegato (e continuano a combattere) la diversa prospettiva di un’altra Europa politica. Uno squilibrio evidente tra tecnica e politica, che aveva portato i più critici a denunciare i rischi della tecnocrazia. Lo sforzo maggiore – sino a ieri – era quello di mostrare la politicità delle scelte tecniche.

Poi il quadro è repentinamente mutato. Quantomeno nel nostro paese. Un nuovo ceto dirigente ha preso il potere e ha rivendicato il primato della politica. E non può dirsi sia stato timido. Insofferente ad ogni limite di natura tecnica, non ascolta granché gli esperti. In caso li usa. Si pensi alla riforma costituzionale, la dimensione tecnica – ovvero l’uso delle competenze proprie della scienza – è apparsa del tutto assente, il ruolo dei costituzionalisti assolutamente marginale. Auditi in gran numero, ma mai veramente ascoltati. Almeno nelle pubbliche sedi. Ciò non ha escluso, infatti, che al governo si potessero insediare in gran numero i consulenti di fiducia. Si pensi in questo caso alle politiche economiche: la sottrazione di competenze e di potere decisionale al ministro (tecnico) dell’Economia ha inciso notevolmente sulla struttura dell’istituzione governo, rafforzando il ruolo politico del “capo del governo” ed attenuando la responsabilità individuale e collegiale dei singoli ministri.

Gli effetti della creazione di strutture di staff presso la presidenza del consiglio devono essere ancora studiati, ma questo modello d’organizzazione dell’esecutivo sta di sicuro modificando nel profondo il modo di formazione dell’indirizzo politico. Dunque, in questo caso, la tecnica si pone al servizio della politica, sebbene in un ruolo apertamente servente.

Può ritenersi questo ribaltamento dei rapporti tra tecnica e politica una semplice ridefinizione dei ruoli? In fondo che al politico spetti la decisione in ultima istanza può essere considerato come la realizzazione di una forma di democrazia popolare (di questi tempi e con riferimento agli attuali esponenti politici meglio sarebbe dire: una forma di democrazia populista). Il tema in realtà è ben più delicato di quanto non possa a prima vista apparire. Coinvolge i difficili e sempre instabili equilibri tra competenze e decisione.

Quel che si vuole qui solo sottolineare è che questo processo di politicizzazione della tecnica sembra ormai aver occupato anche il piano nobile della costituzione, creando un gran trambusto. Potremmo dire – generalizzando – che l’intero dibattito parlamentare è stato contrassegnato da una politicizzazione della tecnica: di quella parlamentare in specie. Troppo spesso le regole dettate nei regolamenti delle Camere sono parse piegarsi alle esigenze politiche. Fare in fretta, più che fare bene. Una politicizzazione della riforma che ha raggiunto un suo vertice quando si è affermata l’idea – covata a lungo già in passato – che la riforma fosse nella disponibilità del governo in carica, il quale non solo poteva – com’è avvenuto in altre occasioni – svolgere un ruolo di stimolo, ma ormai si riteneva titolare principale della funzione di revisione, esercitando un ruolo di preminenza dentro il parlamento. Così, dalla Costituzione come patto sociale, compromesso delle possibilità tra tutte le culture politiche di un paese, si è passati alla Costituzione percepita come strumento della maggioranza, per assicurare governabilità ed efficienza a se stessa. Verrebbe da dire: non più limite e legittimazione del potere, secondo l’ispirazione più radicata del costituzionalismo moderno, bensì instrumentum regni. Il primato della politica, in questo caso, raggiunge il suo apice, sospingendoci verso una concezione premoderna.

A ben vedere v’è però un limite – profondo, abissale – che finisce per compromettere l’energica pretesa dei nostri nuovi sovrani, che ne denuncia la strumentalità, la gracilità, l’impotenza. Un potere politico che, rivendicando il suo primato, apparentemente si vuole mostrare libero nel fine (secondo la pregnante definizione di Giuseppe Guarino), ma che in realtà ha esaurito ogni capacità progettuale di lungo periodo. Miopia in parte prodotta da complessi fattori esogeni, in parte determinata dalla propria debolezza. Da un lato, il processo di integrazione entro le sempre più strette maglie dell’Unione europea erodono gran parte dei margini per politiche sociali innovative; dall’altro, le riforme sociali annunciate con grande enfasi, ma con lo sguardo rivolto all’immediato, senza una vera prospettiva strategica. Fatta salva forse solo la conservazione del potere. Un primato della politica che si arresta alle soglie dell’Europa e si avvita su se stessa nella determinazione della politica nazionale.

Ogni tanto, di fronte alle più rocambolesche spettacolarizzazioni della contesa politica, alle trovate ad effetto, alle battute fini a se stesse, viene da pensare che l’improvvisazione sia alla base di questo ritorno della politica. Una fragilità non da poco. Tanto più alla presenza di ambizioni politiche molto elevate che non si arrestano all’ordinaria attività di governo, ma che investono pienamente il livello costituzionale. Grandi passi fatti con piedi d’argilla.