«Berlino ritorna/è la canzone che tutti cantano/e che ancora risuona, bellissima/per tutta Berlino. Tutti conoscevano i versi di quella canzone. Quattro settimane dopo la fine della guerra una giovane attrice di nome Brigitte Mira l’aveva cantata per la prima volta al Kabarett der Komiker. Poco dopo gli Alleati l’avevano proibita, ma quel foxtrot con un testo pieno di speranza era già diventato un successo. Oppenheimer non aveva mai capito come mai le autorità si fossero prese le briga di censurare quell’innocua canzone. A quanto pareva nel progetto di rieducazione dei berlinesi ai valori libertari e democratici non c’era spazio per l’allegria. Quantomeno dal punto di vista degli Alleati».
Richard Oppenheimer è un ex commissario della polizia criminale, ebreo, è sfuggito all’Olocausto grazie al suo matrimonio «misto» con un’ariana e soprattutto alle persone che nei momenti più difficili lo hanno nascosto alle autorità naziste. Ha attraversato gli ultimi tragici anni del Terzo Reich sopravvivendo spesso a stento ma continuando, pur se costretto ad abbandonare il proprio lavoro, ad indagare su crimini piccoli e grandi. Consapevole che mettersi sulle tracce di un assassino mentre hanno luogo ogni sorta di omicidi di massa, può apparire come un tragico lusso.
PROTAGONISTA della serie di romanzi firmati dall’autore bavarese Harald Gilbers, che si inaugurano nel 1944 per arrivare con La lista nera (pubblicato come i precedenti nella serie dei gialli tedeschi di Emons, pp. 436, euro 16) al dicembre del 1946, Oppenheimer vorrebbe che il suo Paese e la sua città tornassero per quanto possibile alla normalità. Ma quando un sopravvissuto ai lager nazisti cercherà da solo di ottenere la giustizia, e la vendetta, che le nuove istituzioni non sembrano in grado di assicurare alle vittime, si interrogherà a lungo su quale sia il campo nel quale schierarsi: il prezzo del ritorno alla vita ordinaria sarà l’oblio?
Come molte altre figure della letteratura poliziesca che si muovono in un mondo che si affaccia sull’abisso del nazismo e dello sterminio, anche Oppenheimer fa i conti con la propria coscienza, le proprie debolezze e incertezze mentre si misura con una realtà che scivola ogni giorno di più verso l’orrore. Figure e romanzi, spesso sospesi tra distopia e critica sociale, impegno e adesione riluttante alla «zona grigia», paura e speranza, in grado di evocare di volta in volta le atmosfere delle storie berlinesi di Christopher Isherwood, i toni e lo smarrimento di fronte all’esistenza di Louis-Ferdinand Céline, come l’apparente e ruvido cinismo di Raymond Chandler.
Se Gilbers descrive l’epilogo sanguinario e il crollo del Terzo Reich, un altro giovane autore tedesco, Volker Kutscher esplora attraverso il noir la convulsa stagione di Weimar che ne vide germogliare i semi velenosi. Conosciuta ai più attraverso la sua riduzione televisiva nella serie «Babylon Berlin» – due stagioni già proposte anche nel nostro Paese da Sky -, la piccola saga di Kutscher segue le vicende tedesche comprese tra il 1929 e il 1934: gli anni che videro andare in pezzi la società e la democrazia sulle cui rovine avrebbe costruito le proprie fortune il nazionalsocialismo fino alla conquista del potere. A cercare di far luce su una serie di crimini e misteri che si intrecciano con l’atmosfera politica del momento è il commissario di polizia Gereon Rath, trasferitosi da Colonia a Berlino, inizialmente per seguire un caso di corruzione, dove la sua vita sarà destinata a cambiare per sempre. In Goldstein (Feltrinelli, pp. 480, euro 20), terzo capitolo della serie dopo La morte non fa rumore e Il pesce bagnato (entrambi per Feltrinelli) siamo ormai giunti al 1931 e Rath deve misurarsi con le conseguenze quotidiane della crisi economica che flagella il Paese e con l’escalation di scontri tra le bande armate hitleriane e i militanti comunisti che scandisce le giornate della capitale. Per fare un favore ai colleghi dell’Fbi, in un contesto già così complicato deve inoltre seguire le mosse di un gangster ebreo arrivato dagli Stati Uniti.
SARÀ ANCHE GRAZIE a questo incontro inaspettato che lo schivo commissario si renderà conto che la miscela di violenza, crimine e razzismo che monta intorno a lui non è solo uno dei frutti avvelenati della crisi. Quando gli assalti antisemiti delle Sa raggiungono anche i quartieri bene della città che ha imparato ad amare, Rath assiste ad uno spettacolo che lo lascia sbalordito, «e che smentiva definitivamente l’impressione di avere a che fare con una rivolta sociale spontanea di giovani disoccupati. Non era l’anima popolana in subbuglio, e nemmeno un gruppo di Sa finito fuori controllo. Le camicie brune procedevano con sistematicità (…) c’erano dei comandanti che muovevano le loro truppe come in una battaglia». Attraverso quelle violenze, e le coperture di cui godono nei vertici delle stesse forze dell’ordine – «lasciamo le strade in balia di questa gentaglia bruna!», urla al telefono Rath per sollecitare invano alla questura l’invio di agenti per fermare gli assalti -, i nazisti stanno preparando la loro ascesa al potere. Anche per il commissario che si considera come un semplice servitore dello Stato, è pur sempre cresciuto in una famiglia conservatrice prussiana, è venuto il momento di scegliere da che parte stare.
NON HA INVECE mai avuto dubbi il detective Bernie Gunther, anti-nazista dichiarato per quanto il tempo e le circostanze consentano, veterano di guerra e ex poliziotto protagonista della «trilogia berlinese» firmata dal compianto scrittore scozzese Philip Kerr, di cui Fazi annuncia il prossimo ritorno in libreria – una prima edizione si doveva a Passigli – a cominciare da Violette di marzo. Un classico del noir dove, all’ombra della preparazione delle Olimpiadi del 1936 che Hitler intende trasformare in una vetrina del proprio potere, la capitale del Terzo Reich è scossa da una serie di omicidi riconducibili ad un faida che scuote i vertici stessi del regime, coinvolgendo personaggi del calibro di Göring, Himmler e Heydrich.
Nel cuore di tenebra della cupola nazista, anche se nel contesto particolare della Conferenza che si svolse nella capitale bavarese nel settembre del 1938, prima che l’Europa fosse travolta da una nuova guerra mondiale, si muove l’ultimo romanzo di Robert Harris, Monaco (Mondadori, pp. 289, euro 20) che rielabora la memoria storica di quell’evento, già affidata agli archivi, indagando le ragioni che condussero all’appeasement britannico nei confronti dei nazisti – ma a Londra c’era anche chi all’epoca parteggiava apertamente per i nazisti – con la speranza che questo avrebbe evitato la nuova guerra mondiale che la Germania avrebbe scatenato di lì a meno di un anno. Proprio ad Harris si deve però anche la distopia poliziesca di Fatherland (Mondadori) – romanzo a suo modo imparentato con La svastica sul sole di Philip K. Dick (Fanucci) – ambientato nel 1964 in una Berlino capitale di un Impero che in conseguenza della vittoria tedesca nella guerra mondiale si estende ormai dal Reno agli Urali, e nella quale i progetti monumentali di Albert Speer, l’architetto del Führer sono stati tutti portati a termine.
IMMERSI NELLA REALTÀ di un’epoca turbolenta, desiderosi di far brillare la luce della giustizia anche nella notte più buia della recente storia dell’umanità, personaggi e protagonisti di questo ormai consolidato filone del noir (al riguardo si veda anche la scheda qui di seguito) non sempre danno però il meglio di sé. A volte, come accade con l’ispettore della polizia parigina Léon Sadorski, anticomunista e antisemita, pronto a collaborare in ogni crimine con gli occupanti nazisti, è lo squallore del degrado e della miseria umana che si intreccia con buon esito con l’ambiguità e i sotterfugi del romanzo poliziesco. Protagonista in Francia di una trilogia firmata dallo scrittore e sceneggiatore, per il cinema e la graphic novel, Romain Slocombe, Sadorski finirà però per passare, almeno momentaneamente, dalla parte dei carnefici a quella delle vittime. Nella sua prima indagine tradotta nel nostro Paese, Il caso Léon Sadorski (Fazi, pp. 440, euro 18), già finalista al Goncourt, dopo aver affiancato le Brigate speciali incaricate di dare la caccia ai partigiani il bieco poliziotto sarà infatti arrestato dalla Gestapo e portato in una prigione di Berlino.
Al di là delle apparenze, attraverso la figura di Léon Sadorski emerge così il grande rimosso del collaborazionismo francese, quello che un altro scrittore transalpino, Dan Franck, ha raccontato anni fa in Mezzanotte a Parigi (Garzanti, 2011), descrivendo come una parte della «capitale della cultura mondiale» , compresa una fetta non così marginale dell’élite economica e intellettuale scelse di scendere a patti con la propria coscienza, anteponendo il proprio tornaconto alla dignità.
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Eroi riluttanti e veri resistenti all’odio
Oltre ai classici firmati da Deighton, Forsyth e Le Carré, decisamente più orientati verso la spy story, tra gli autori di thriller e polizieschi che si sono cimentati con le tragedie della Seconda guerra mondiale si possono ricordare lo scrittore polacco Marek Krajewski che ha firmato quattro romanzi, pubblicati da Einaudi, incentrati sulla figura del commissario Eberhard Mock e ambientati a Breslavia durante l’occupazione nazista. La scrittrice italoamericana Ben Pastor, che ha creato la figura di Martin Bora, ufficiale della Wehrmacht e convinto antinazista, le cui indagini sono pubblicate da Sellerio. Lo statunitense Paul Grossman, autore anche di un’opera teatrale su Hannah Arendt e il processo Eichmann, autore de «I sonnambuli» e «Nessun indizio» (Fanucci). Un altro americano, Jonathan Rabb ha pubblicato per Cairo «Metropoli» – cui sono seguiti altri romanzi – dove il commissario della Kriminalpolizei di Berlino, Nikolai Hoffner indaga nel 1927 su di un omicidio che è stato consumato in una suite della Ufa, la casa di produzione cinematografica che all’epoca contendeva alla major di Hollywood il primato mondiale del grande schermo.