Il lago ha una sua bellezza speciale,anche quando il cielo è pieno di pioggia, e qualche domenica ci capita pure il mercatino delle pulci, vinili italiani, orologi, fisarmoniche e sedie tonet. Nyon, vicinissima alla godardiana Rolle, da qualche anno a dirigere il festival Visions du Réel c’è l’italiano Luciano Barisone, critico, organizzatore culturale, infaticabile inventore di sistemi cinema nella sua Valle D’Aosta (da dove viene anche l’altro italiano in Svizzera, un suo «allievo» peraltro, il direttore del festival di Locarno Carlo Chatrian) e per qualche anno direttore del fiorentino Festival dei Popoli. Piano piano insieme a un ottimo gruppo di lavoro, Barisone ha saputo trasformare il festival – appuntamento tra i più importanti per il settore – modulandolo alle sue passioni; nel progetto di ricerca, e nella struttura organizzativa dove ha introdotto il mercato e i «work in progress», al cui interno i registi con progetti ancora da chiudere possono cercare interlocutori produttivi.

Il cuore è la centralissima piazza che riunisce i diversi centri del festival; sotto al tendone bianco c’è il ristorante, bello e di buona qualità – prezzi relativamente (siamo pur sempre in Svizzera) abbordabili; nel piccolo bar con dj ogni sera si sta insieme, addetti ai lavori, ospiti e pubblico possono incontrarsi e chiacchierare. Tutto questo è fondamentale (e spesso sottovalutato) per la riuscita di un festival, per renderlo non solo una vetrina seppure pregiata ma un riferimento vitale per i suoi frequentatori.

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Il nome, Visioni del Reale, ci dice subito che parliamo di documentario, anche se la selezione tende a spiazzare le abitudini piuttosto che a assecondarle percorrendone le declinazioni più strabiche. Non un «genere» ma molti i generi, non un’immagine ma tante immagini e modi di avventurarsi nelle epifanie del mondo, nella scrittura del reale, nel suo racconto come invenzione di cinema.

La selezione è articolata in numerose sezioni, dal concorso lungometraggi ai «Primi passi» degli studenti delle scuola di cinema, nella cui differenza però riaffiora quella comune progettualità artistica di cui si diceva. Una tensione del cinema verso immagini che non dichiarano mai se stesse, anche nei loro esiti meno felici, nei tentativi incerti, che spingono verso un sublime. Ci sono i registi che tornano, per esempio Thomas Heise, tedesco dell’est, di quella che era la Ddr che come altri registi della Germania socialista Heise aveva trasformato in poetica (e politica). Poi il Muro è stato buttato giù, quali che fossero le aspettative di tanti – rispetto alla riunificazione – Heise lo ha raccontato nel suo capolavoro, Material montato vent’anni dopo l’89 ritrovando il confronto e le terribili rivelazioni che le persone si facevano in quei giorni. E i desideri, e le aspettative di futuro forse non coincidenti con quanto accadde poi. Ora Heise – di cui Barisone aveva presentato la retrospettiva a Firenze – cerca di ricostruire il suo cinema altrove, e un po’ per caso col precedente The Solar System era approdato in America latina, in Argentina. Vi torna, ma stavolta in Messico, nel nuovo film nato da un laboratorio tenuto dallo stesso Heise ai detenuti del carcere per minori di Città del Messcio. Städtebewohner lascia però il laboratorio fuoricampo se non nella consuetudine della presenza di Heise con la macchina da presa in quel vissuto, e in alcuni racconti dove i ragazzi parlano di sé. Anche se in genere il «delitto» non viene menzionato. Sono i frammenti di un vissuto con le sue regole e il suo ordine – compreso il divieto ai familiari di portare ai ragazzi cibi troppo grassi – che interessano Heise, lo spazio chiuso che mette insieme detenuti e poliziotti in una dimensione scandita dallo stesso tempo la cui percezione è però rovesciata.

Le visite. Se per i ragazzi sono un momento di «fuga», l’occasione per vedere il fuori, la famiglia, la ragazza, per i poliziotti sono uno spazio di tensione. Controllare le buste, frugare nei cibi, aprire le sacche, perquisire i vestiti … Tutto diventa «regime» d’ordine, anche un abbraccio all’amata.

Nell’impianto di osservazione, esplicitamente dichiarato, spesso però qualcosa sfugge, e sono le cose migliori del film, un guizzo notturno, un’espressione di smarrimento, un istante di stanchezza arrabbiata, quell’imprevedibile consapevole di una realtà che appare suo malgrado lontana.