Quando l’11 febbraio del 1914 gli spettatori di un piccolo teatro di Monaco di Baviera assistettero a Hexentanz (La danza della strega), uno dei due assoli con cui la ventisettenne Mary Wigman debuttò come coreografa e interprete, non immaginavano a che punto quello spettacolo avrebbe rivoluzionato il concetto stesso di danza artistica e le strategie comunicative del teatro occidentale.

Wigman si presentò in scena con un copricapo aderente e avvolta da un pezzo di broccato fissato al collo a mo’ di mantello grazie a cui si trasformava in una forma astratta in movimento. Disattendendo le aspettative del pubblico, che era abituato a vedere giovani donne impersonare personaggi fantastici o principesse danzando passi di balletto, Wigman si presentò seduta a terra per poi compiere una serie di movimenti circolari che, come un vortice, sembravano inghiottire progressivamente lo spazio scenico. Nessun cenno autobiografico, nessuna scenografia, né utilizzo di partiture musicali (tranne qualche sonorità percussiva): la nuova danza, secondo Wigman, doveva soltanto dare corpo a uno stato di estasi per esprimere pulsioni inconsce dell’interprete o materializzare forze sovrannaturali.

Libertà dinamica
Questa danza fu definita «assoluta» dalla critica coeva per sottolineare come celebrasse esclusivamente il proprio mezzo, il corpo in movimento nello spazio. Gestalt im Raum (figura nello spazio) propone di etichettarla la studiosa americana Susan Manning, sottolineando quanto lo sviluppo delle potenzialità del movimento nello spazio e la configurazione dinamica dell’energia ne costituissero il cardine. Manning ripercorre le tappe della carriera di questa danzatrice e coreografa, impresaria, insegnante e per cinquant’anni protagonista della vita culturale tedesca in una monografia apparsa in inglese nel 1993 e, con una nuova introduzione, nel 2006. Col titolo Mary Wigman e la danza tedesca del primo Novecento è ora disponibile, grazie all’Istituto Italiano di Studi Germanici (http://www.studigermanici.it/attivita-editoriale/distri3), l’edizione italiana di questo importante studio, curata da Patrizia Veroli, con la traduzione di Maria Grazia Bosetti.

Tenendo come filo rosso l’analisi delle trasformazioni formali e della carica ideologica delle coreografie di Wigman alla luce dei diversi contesti sociali e politici in cui si manifestarono, Manning analizza una selezione del corpus di circa 200 opere di cui restano qualche appunto e disegno dell’artista, pochi frammenti di filmati, numerose fotografie e recensioni. L’autrice colloca le danze di Wigman al crocevia tra femminismo, per il loro sovvertimento dell’erotizzazione dell’interprete femminile e il conseguente voyeurismo dello spettatore maschile, e nazionalismo, per la loro tendenza a dare corpo a un’identità nazionale tedesca essenzializzata e avvolta da un’aura mistica.

La carriera artistica di Wigman viene ricostruita a partire dagli assoli degli anni Dieci e Venti, spesso presentati sotto forma di cicli, e danze corali, che subirono trasformazioni importanti negli anni Trenta. Nelle danze di gruppo degli anni Venti, la struttura coreografica comunicava una interdipendenza utopica tra la figura guida e l’autonomia delle singole interpreti – le danzatrici della compagnia di Wigman composta da sole donne. Negli spettacoli degli anni Trenta questa atmosfera tende a cambiare in favore di una più marcata centralità della leader rivelando, secondo Manning, i segni di un’estetica fascista. Un primo esempio di questa transizione è dato da Totenmal, lo spettacolo per un centinaio di interpreti realizzato nel 1930 da Wigman con il poeta Albert Talhoff in memoria dei soldati uccisi durante la prima guerra mondiale. In un’atmosfera quasi religiosa, vi riecheggiavano la tradizione tedesca della rappresentazione festiva, la retorica nazionalista e militarista dell’epoca e un’ambizione ambiguamente pacifista.

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Wigman fu sempre reticente rispetto alla sua adesione alle politiche culturali dapprima della Germania weimariana, poi nazista e infine socialista (seppure per un breve periodo). Alla fine della seconda guerra mondiale arrivò a negare la sua vicinanza politica e ideologica al terzo Reich, malgrado gli incarichi che vi ricoprì e le opere che creò testimonino una verità ben diversa. Il suo atteggiamento, condiviso da molti altri protagonisti della danza moderna tedesca, ha alimentato la leggenda secondo cui questa nuova arte fosse sostanzialmente apolitica e i suoi protagonisti vittime del regime.

All’epoca della sua pubblicazione, il volume di Manning, insieme a pochi altri, sollevò il velo e mise in crisi le grandi narrazioni su cui si basavano anche i principali studi storici sulla cultura all’epoca di Weimar e la sua transizione verso il nazismo. Questi studi hanno tutti ugualmente ignorato il ruolo della danza moderna e sostenuto la tesi di una profonda frattura nell’arte moderna tedesca dopo l’avvento del nazismo. Manning dimostra come, al contrario, la maggior parte dei danzatori e dei coreografi attivi durante la Repubblica di Weimar, tra cui Wigman, restarono nella Germania hitleriana e collaborarono convintamente con il terzo Reich. Il loro allineamento politico fu favorito dal peggioramento delle condizioni lavorative e dalla necessità di trovare nuovi inquadramenti istituzionali per un’arte così giovane. La forza dell’indagine di Manning, consiste nell’avere messo in evidenza quanto una simile adesione fosse anche il sintomo di un’accoglienza favorevole da parte dei danzatori moderni dell’ideologia nazista che rispondeva alle loro esigenze di realizzare l’unità di corpo e spirito impliciti in molta filosofia tedesca da Novalis fino a Nietzsche.

Dal nazismo in poi
La leggenda secondo cui i danzatori tedeschi furono osteggiati e non favoriti dal regime nazista ha nutrito a lungo la storia di quest’arte. Grazie alla scarsa conoscenza storica della reale e complessa dimensione estetica e ideologica della danza moderna tedesca, la generazione che ha reso il Tanztheater tedesco degli anni Settanta uno dei fenomeni più noti della danza nella seconda metà del Novecento (da Pina Bausch a Susanne Linke), ha potuto considerare la danza moderna tedesca il punto di partenza della loro rivoluzione artistica.

Ancora oggi per molti artisti, critici e studiosi è difficile integrare quanto la memoria dei protagonisti abbia trasmesso alle generazioni successive, con i documenti trovati e analizzati da Manning e dagli specialisti che ne hanno proseguito le ricerche. Ma a rendere ancora attuale il volume della studiosa statunitense è soprattutto la lettura comparata del modernismo coreutico americano e tedesco, e l’analisi dei frequenti transiti transoceanici di idee, artisti e opere.
A Patrizia Veroli va il merito di avere corredato il volume con appendici che consentono di approfondire lo sviluppo storico della scuola Wigman e il contesto generale. All’Istituto Italiano di Studi Germanici, solitamente orientato verso la letteratura, va il riconoscimento per avere messo a disposizione dei lettori italiani un testo sulla danza tedesca e la sua cultura di cui in Italia si continua ad avere una offerta limitata. L’iniziativa è tanto più lodevole quanto l’immagine articolata che Manning restituisce di questi fenomeni culturali resta un punto di partenza per ripensare alla storia della danza non più come a una «storia tra le storie» bensì come a una «storia nella storia».