Quello in scena al Teatro alla Scala di Milano in questi giorni non è solo un bellissimo spettacolo, rara combinazione di una direzione e di una regia intense, efficaci e sinergiche, ma è anche una doppia prima assoluta: si tratta del debutto di Die tote Stadt e della prima esecuzione scaligera di un’opera di Erich Wolfgang Korngold, compositore austriaco ancora sottostimato. Allievo di Alexander Zemlinsky, ammirato da Gustav Mahler, Giacomo Puccini e Richard Strauss, suonato da Arthur Schnabel, diretto da Felix Weingartner, Bruno Walter e Otto Klemperer, nel 1920 Korngold appena ventitreenne viene consacrato proprio da Die tote Stadt, opera in tre atti su un libretto di Paul Schott (pseudonimo sotto cui si cela il padre Julius), ispirato al dramma Le mirage (1901) che lo scrittore simbolista belga Georges Rodenbach ha tratto dal suo romanzo Bruges-la-morte (1892). In fuga dalla persecuzione nazista, nel 1934 Korngold trova riparo negli Stati uniti, dove inizia una seconda carriera come compositore di musiche per il cinema.

LA RICCHISSIMA vena melodica, il talento armonico-descrittivo e la tendenza a contaminare generi e stili che fanno di lui uno dei padri della tradizione musicale di Hollywood, dove riceve due Oscar, sono anche le ragioni dell’originalità di Die tote Stadt, in cui le eredità di Mahler e di Puccini sono usate sia come ponte tra l’austero tematismo wagneriano, la leggerezza dell’operetta di Johann Strauss II e le avanguardie, sia come traduzione sonora del tentativo spericolato di sintetizzare descrittivismo simbolista, psicoanalisi del lutto e pulsione metateatrale. La direzione dello statunitense Alan Gilbert, che ha debuttato alla Scala nel 2016 con Porgy and Bess, accolta da una vera e propria ovazione del pubblico, stabilisce un equilibrio abbagliante tra buca e palco, tra gigantismo dell’orchestra e intimismo della storia, tra volumi e dettagli, tra nostalgia dell’Ottocento e attrazione verso il Novecento, tra architettura melodica e riverberi armonici, tra ordine e dissonanza.

L’ALLESTIMENTO di Graham Vick, il cui ultimo cimento scaligero è Macbeth del 2008, insieme alle scene e ai costumi di Stuart Nunn, alle luci di Giuseppe di Iorio e alla coreografia di Ron Howell, dialoga con la direzione di Gilbert cercando anch’esso di unire linguaggi eterogenei: così la spettacolarità illusionistica e meridiana del cinema incontra la complessità umbratile e autodemistificante dello spazio teatrale, le maschere della commedia dell’arte si mescolano con i simboli di Freud, l’estroversione delle pulsioni di vita con il solipsismo delle pulsioni di morte, la spoliazione implicata dall’eros con i camuffamenti della religione, la secessione viennese con il barocco spagnolo.

IL CAST dei cantanti, coadiuvati da ottimi mimi, permette alla sintesi stratificata di direttore e regista di acquisire un corpo e di fluire sulla scena. Il soprano lituano Asmik Grigorian, vincitrice dell’International Opera Award come migliore interprete nella recente Salome di Salisburgo, benedetta da una voce torrenziale e tecnicamente agguerritissima e da capacità attoriali rare, scolpisce una Marietta che è una vera e propria personificazione del potere irresistibile dell’eros. Il tenore tedesco Klaus Florian Vogt si disimpegna nel ruolo impervio di Paul con grande generosità, tenendo sotto controllo un evidente problema nell’emissione delle note discendenti. Suadente il Pierrot di Markus Werba. Bravi gli allievi dell’Accademia della Scala, in particolare Sergei Ababkin nel ruolo di Victorin.