Liberamente ispirato al caso dell’austriaco Joseph Fritzl, che tenne prigioniera sua figlia per ventiquattro anni, nell’arco dei quali la costrinse a concepire sette figli, Room (in Italia Stanza, letto, armadio, specchio), della scrittrice irlandese Emma Donoghue, è un libro sul potere trasformativo dell’immaginazione e del racconto, un incubo che, filtrato attraverso gli occhi di un bambino, assume i contorni di una fiaba. Un luogo della realtà in cui una stanzetta fatiscente, crudelmente sigillata dal mondo esterno, diventa un intero pianeta, misterioso, ricco di avventura, rituali, personaggi, gioie, paure e affetti.

Affidandosi a una sceneggiatura della stessa Donoghue, il regista Lenny Abrahamson (irlandese anche lui, già autore di Frank e Garage) ci trasporta in quel pianeta quasi con bruschezza. Fin dai primi momenti del film siamo immersi nell’universo di Ma (Brie Larson, premiata l’altra sera con l’Oscar di miglior attrice protagonista) e di suo figlio Jack (Jacob Tremblay, straordinario), un bambino di cinque anni, con i capelli bruni lunghissimi, lo sguardo paziente e saggio – quasi troppo per la sua età. È un universo dove gli oggetti – lampada, lavandino, tv e il riquadro blu di un abbaino, ritagliato in alto sul soffitto- sono apostrofati come personaggi, compagni di gioco.

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Complici dell’incantesimo in cui Ma, rapita da uno sconosciuto, mentre tornava dal liceo, sette anni prima, e da allora rinchiusa in quella prigione, ha cresciuto suo figlio. La stanza è un buco di pochi metri quadrati, con i muri di cemento, un filo per la biancheria quasi sopra al fornello elettrico, un piccolo televisore decrepito che trasmette da qualche twilight zone, un armadio. Ma, nei piccoli movimenti di macchina di Abrahamson, nelle sue inquadrature ravvicinate, a tratti spiazzanti, quella «stanza» sembra effettivamente magica; si allarga e si restringe come una fisarmonica, piena di angoli, sorprese, significati.

Per Jack la stanza è tutto, l’unica realtà che conosce, e quindi che esiste. La vive con l’adesione totale e la cocciutaggine di un bimbo, che fa il muso perché non ha la torta di compleanno e accoglie con entusiasmo l’arrivo di un topolino. Ma l’incantesimo mostra segni di logorio sul volto di sua madre, che si fa più triste e più preoccupato a ogni nuova apparizione di Old Nick (Sean Bridgers), un uomo che viene a violentarla regolarmente, portando con sé come un Babbo Natale malefico, cibo e regali per le sue vittime. Durante quelle visite, Jack viene chiuso nell’armadio, un mondo ancora più piccolo, da cui lui sbircia attraverso uno spiraglio.

Room trae la forza delle sue immagini dal microcosmo emotivo viscerale, intensissimo, del rapporto tra madre e figlio e nel magico equilibrio di lenti distorte da cui dipende la loro sopravvivenza nella stanza. Lo spazio chiuso, claustrofobico, gli si addice.
Quando però, dopo quella prima parte, che si risolve in un crescendo drammatico tesissimo e molto bello, Ma e Jack si ritrovano nel mondo esterno, il film si appiattisce, si banalizza in modo quasi televisivo.

La sopravvivenza fisica non è più in discussione e sorgono naturalmente altre domande. Di fronte ad esse, Ma rimane purtroppo un personaggio opaco, una cifra che né il regista né la sceneggiatrice sembrano interessati a sciogliere se non attraverso psicologismi non molto originali e la classica crisi di nervi. Jack «aggiusta» meglio il suo guardo sul nuovo mondo che lo circonda, che è molto più grande di quello che conosceva e include anche dei nonni agiati e solleciti. Tremblay, che parla poco, ma è abilissimo a comunicare con gli occhi e la bocca stati d’animo obliqui- assume un’aria un po’ guardinga.

Scale, corridoi, mobili, persone diverse gli richiedono, anche nello spazio del fotogramma, una prospettiva diversa. Alla fine, però forse (sarà il messaggio del film?) questo mondo così più grande, diverso e più comodo si può decifrare secondo i codici e i valori non preconcetti della stanza. Dove lui chiede di tornare in visita e rimane l’anima di Room.