Internazionale

Se il calcio non è più l’oppio dei popoli

La politica nel pallone Il Pil cresce e in piazza non si è vista una disperazione sociale «alla greca». Ma il popolo è più esigente proprio a causa dei cambiamenti ottenuti

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 26 giugno 2013

Ho aperto Facebook, il moderno spirito del mondo, e ho trovato una foto di un gruppo di cittadini brasiliani di fronte al Colosseo. Una manifestante teneva sorridente e orgogliosa un cartello oro con scritta verde: «Scusate il disturbo. Stiamo cambiando il Brasile». Conosco bene la donna: è la fidata collaboratrice domestica di alcuni amici, con due ragazzoni ottimi calciatori dilettanti e accaniti tifosi. Con il suo stipendio, la signora Maria non provvede solo a se stessa, ma sostiene una famiglia allargata composta di concittadini senza lavoro e nipoti che non hanno i soldi per andare a scuola. Se l’economia brasiliana si sostiene ancora sulle rimesse dei lavoratori all’estero, per quale ragione bisogna spendere 13 miliardi di dollari per la Coppa del Mondo? C’è qualcuno che si sente di affermare che tale investimento assicuri la prosperità più della spesa per istruzione e sanità?
Le manifestazioni alla Confederation Cups testimoniano un cambiamento epocale. Più che in ogni altro paese, in Brasile il calcio è una religione civile e la Seleção l’emblema dell’identità nazionale. Pelè è di gran lunga più autorevole di quanto lo sia da noi Garibaldi. I successi calcistici sono stati seguiti con trepidazione e usati politicamente per far tacere il malcontento o addirittura per eliminare fisicamente gli oppositori. Il gol che Pelè riuscì ad insaccare tra Facchetti e Albertosi nella Coppa del mondo del 1970 ebbe l’effetto deleterio di mantenere in vita per ancora qualche anno la dittatura di Emílio Garrastazu Médici.
Oggi la democrazia si sta lentamente consolidando e, dopo un decennio di governi di centrosinistra, l’economia brasiliana è con il vento in poppa. Nonostante l’andamento ondivago, il Prodotto interno lordo continua a crescere, anche grazie ad una politica commerciale che ha collegato il paese ad altre economie emergenti, prima tra tutte quella cinese. E, soprattutto, in uno dei paesi con la maggiore ineguaglianza del mondo, si sta lentamente equilibrando la distribuzione del reddito e l’indice di Gini è calato di ben cinque punti in un decennio.
Le proteste di piazza di questi giorni, dunque, non sono contrassegnate da una aumentata disperazione sociale analoga a quella, ad esempio, vista in Grecia. Al contrario, il popolo si sta facendo più esigente perché qualche cambiamento è stato ottenuto. Se il paese ha ancora sacche immense di povertà, se la distribuzione del reddito e della ricchezza è molto più sperequata di quanto lo sia nei paesi europei e nelle altre economie emergenti Cina e India, se dilaga la corruzione, e se il tasso di sviluppo economico è ancora troppo instabile, il governo non dovrebbe destinare le già scarse risorse al calcio. Invece di discutere di quale sia il centravanti più in forma, l’opinione pubblica si sta chiedendo come mai il loro paese sta spendendo il triplo della Germania per il Mondiale del 2006, perché la gran parte dei profitti andranno nelle tasche della Fifa, che cosa si sta facendo per sradicare le endemiche mazzette associate alle opere pubbliche.
I manifestanti in strada sono sempre stati di più degli spettatori dentro gli stadi: forse sta per finire l’epopea del calcio come oppio dei popoli. Sono veramente state poche le voci di coloro che si sono levate a difendere le scelte fatte. La stessa Presidente Dilma Rousseff, mentre manda le squadre speciali in tenuta anti-sommossa, sta anche brandendo la carota, con la speranza di parlare con i manifestanti, una massa elettorale enorme senza la quale non può sperare di rivincere le elezioni. L’onnipotente Presidente della Fifa Joseph Blatter, colui che alla fine della fiera incasserà il dividendo più consistente, sta tentando di calmare gli animi.
È rimasto solamente Pelè a chiedere ai manifestanti di tornare a casa, con un logoro appello alla fede sportiva dei suoi compatrioti. È stato rimbeccato niente meno che da Diego Armando Maradona, l’icona della squadra e della nazione da sempre rivale. Pelé è stato zittito dai suoi connazionali, mentre Maradona per la prima volta è stato applaudito. Deve essere vero, allora, che stanno cambiando il Brasile.

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