La tesi che Mario Pezzella consegna al lettore di Altrenapoli (Rosenberg&Sellier, pp. 192, euro 15) è disegnata con nettezza: a causa di un sistema di dominio di lunga durata che ha sancito la separazione tra plebe e borghesia, tra popolo e intellettuali, producendo un vero e proprio trauma storico, un’originaria cultura comunitaria ha trovato, a contatto con una modernità distruttiva e senza regole, i presupposti della sua dissoluzione, sopravvivendo poi nelle sembianze di lacerti mitici, inerti perché relegati a mera retorica, e di oggetti poetici passivi, o, addirittura, di fantomatiche essenze caratteriali. Le rappresentazioni dell’immaginario – che Pezzella studia attraverso l’analisi di opere letterarie e cinematografiche, da La Capria a Saviano, da Rosi a Garrone – riflettono, per rifrazione dialettica, le ragioni di un trauma storico taciuto.

LA PLEBE napoletana, sostiene il filosofo, «resta in bilico tra l’impossibilità di accedere pienamente al logos della modernità capitalista e la dissoluzione del suo codice originario, che sopravvive in forma distorta e irriconoscibile o si degrada in organizzazione criminale». Per dire che la modernità propone qui un’integrazione, o, per meglio dire, un’ibridazione tra culture, che però segue una direzione di dominio: la cultura della plebe, fondata su valori arcaici, magici e tradizionali, viene resa silente, inespressiva, incapace di articolare, nell’incontro col moderno, una sua posizione; pertanto, è costretta a una passività linguistica, e dunque politica, che la condanna a vivere soltanto attraverso una parvenza mitica, tiepida e rassicurante. Più nello specifico – e qui Pezzella segue Ernesto de Martino –, l’inespressività a cui la plebe è condannata dal dominio capitalistico che la corrode ha qualcosa di patologico nel suo annientarsi, di catastrofico nella permanenza della crisi di senso cui si consegna: «essa è stata sconfitta da un modello di modernità che ha dislocato e frammentato la sua cultura, ne ha impedito lo sviluppo interno e l’ha ridotta a un coacervo sconnesso di tempi e storie ibridate».

Condizione che poi spiega, a parere di Pezzella, il regresso storico inscenato dal laurismo, dal trasformismo e da altre forme populistiche, nati da una rimozione permanente del trauma storico, appunto gestito a uso e consumo – in una sua versione, diciamo così, naturalizzata – delle classi dominanti, per mezzo dell’annullamento di qualsivoglia alternativa e della cancellazione di un passato in cui una forma di vita comunitaria poteva perlomeno darsi quale possibilità.
«Con l’alibi della natura», del resto, si fa strada il consolidamento di un’ideologia che attribuisce essenze e caratteri sentiti come immutabili (la «napolitudine» o la «napoletanità» di cui parla l’autore): «un sistema di dominio scriteriato e mediocre viene così giustificato, paradossalmente elevato e nobilitato a Destino». La cultura ne fornisce le ragioni e il contenuto.

E, TUTTAVIA, nel mentre respinge le voci dei subalterni, le richiama in causa palesandone il silenzio. Ecco perché, per Pezzella, dietro lo strato superficiale del dominio, può nascondersi una possibilità utopica: «il ricordo di un bene comune scomparso» e «la memoria risorta di un suo passato distrutto», che si pongano al di là di una condizione imposta. La quale consiste nel recupero, da parte dei «senza voce», di una «parola che possedevano», della quale sono stati espropriati, la cui cancellazione ha causato il necessario utilizzo di codici altri, ovvero del «linguaggio astratto della modernità del capitale».
E ciò equivale, in realtà, al mutismo o alla partecipazione passiva, che forse oggi nasconde i suoi esiti politici proprio nell’accesso indifferenziato a una lingua in verità servile, la cui astuzia consiste nell’accordare, al prezzo della schiavitù, l’illusione della libertà e della partecipazione.