Vecchia storia: le lettrici leggono libri di scrittrici e scrittori, i lettori – intendendo qui solo i lettori pronti a definirsi uomini, cioè maschi, senza troppe esitazioni – fanno di tutto per evitare i volumi che portano in copertina il nome di una donna. Lo si è detto tante volte e lo scrive adesso, appoggiandosi su indagini recenti, M.A. Sieghart sul Guardian. (Per inciso, sembrano ancora mancare dati accurati sulle predilezioni di coloro che non si riconoscono in una identità binaria, ma se la lista di titoli consigliati da Penguin Random House per il Pride Month ha un fondamento, i testi preferiti dalla galassia Lgbtq+ nascono all’interno della galassia Lgbtq+).

Dietro le iniziali puntate di Sieghart c’è in effetti una Mary Ann che fin dall’incipit svela l’inganno: niente nome per esteso, scrive, perché «voglio che anche gli uomini leggano questo articolo». Un espediente al quale prima di lei hanno fatto ricorso in tante, da George Eliot giù giù fino a J.K. Rowling, ma che evidentemente continua ad avere una certa utilità.

Per il suo libro The Authority Gap, appena uscito da Penguin, Sieghart – che è una giornalista e commentatrice politica piuttosto nota nel Regno Unito – ha commissionato a Nielsen una ricerca sulle letture abituali di donne e di uomini: «Volevo sapere se le autrici non solo erano considerate meno autorevoli degli uomini, ma se venivano lette dagli uomini. E i risultati hanno confermato il mio sospetto: è estremamente improbabile che gli uomini arrivino addirittura ad aprire un libro di una donna».

E infatti: per le prime dieci autrici più vendute (parliamo di bestselleriste seriali come Danielle Steel, ma anche di protagoniste della letteratura mondiale, da Jane Austen a Margaret Atwood) la spaccatura è nettissima: 19% lettori, 81% lettrici. Mentre per i primi dieci autori (uomini) in cima alle classifiche dei libri più venduti (tra loro Dickens, Tolkien e Stephen King), la divisione è molto più uniforme: 55% uomini e 45% donne.

Lo studio commissionato da Sieghart rivela però altri dati interessanti e meno scontati: per esempio, che i pochi maschi coraggiosi capaci di non arretrare quando si trovano di fronte ai testi delle scrittrici, non restano delusi, anzi li preferiscono, sia pure marginalmente. Infatti, secondo i dati di Goodreads, il più popoloso social dedicato alla lettura, in media gli uomini danno una valutazione di 3,9 su 5 ai libri delle autrici e di 3,8 ai libri degli autori.

E ancora, la ricerca Nielsen mostra che il divario di genere fra lettrici e lettori di saggistica è meno netto rispetto alla narrativa (65 % contro 35 %). Forse in questo ambito gli uomini hanno vedute meno chiuse? Purtroppo no: semplicemente nella non-fiction le donne hanno una tendenza più spiccata a leggere testi di autrici.

Appurato che i suoi sospetti erano fondati, Sieghart ci spiega perché le cose vanno cambiate: «Se gli uomini non leggono libri di e sulle donne, non riusciranno a capire la nostra psiche e la nostra esperienza vissuta. E una visione così ristretta influenzerà le nostre relazioni con loro come colleghi, amici, partner. Ma questa situazione impoverisce anche le scrittrici, il cui lavoro, se è consumato perlopiù da donne, viene considerato di nicchia e non mainstream. Di conseguenza godranno di meno rispetto, meno status e meno soldi».

Ammesso tutto questo sia vero, cosa fare per costringere gli uomini a leggere i libri delle autrici? Seguire l’esempio di Sieghart e limitarsi alle iniziali o ricorrere addirittura a pseudonimi maschili? Imporre agli scrittori (uomini) una moratoria di un paio d’anni? Trovare l’equivalente libresco della «cura Ludovico»? Ogni suggerimento è benvenuto.