Una valanga di critiche si è abbattuta su Jair Bolsonaro al termine della sua visita di tre giorni a Washington, dove, più che il «Trump dei Tropici», è sembrato il fedele vassallo dell’idolatrato presidente degli Stati uniti. Una subalternità, quella di cui ha dato prova il suo governo, che ha ricordato la cieca sottomissione degli anni della dittatura militare, quando – come ha ricordato il docente di relazioni internazionali Gilberto Maringoni – l’ambasciatore a Washington Juracy Magalhães dichiarava senza incertezza: «Quello che è buono per gli Usa è buono per il Brasile».

BOLSONARO non ha minimamente nascosto il suo strabordante entusiamo per Trump: «Abbiamo molto in comune – ha detto tra molto altro – e questo è per me motivo di orgoglio». E per compiacerlo non ha neppure esitato ad attaccare i migranti, brasiliani inclusi, la maggioranza dei quali, ha dichiarato alla Fox News (salvo poi scusarsi), non avrebbe affatto «buone intenzioni». E non è stato da meno suo figlio Eduardo – l’unico invitato con il padre nel salone ovale della Casa Bianca, con grande scorno dell’irrilevante ministro degli Esteri, Ernesto Araújo – il quale ha detto addirittura di vergognarsi dei suoi concittadini che vivono negli Usa in situazione di irregolarità.

In chiave di esplicita sottomissione è stata letta anche la visita alla sede della Cia a Langley, strombazzata dal primogenito Bolsonaro. Proprio quella Cia che, si è saputo poi, ha spiato per anni la presidente Dilma Rousseff.

NON CONTENTO di aver concesso l’esenzione dei visti per i turisti statunitensi (e canadesi, australiani e giapponesi) senza obbligo di reciprocità, il presidente ha inoltre dato il via libera all’importazione di 750mila tonnellate di grano Usa all’anno senza applicazione di tariffe doganali, e senza ottenere in cambio alcuna revisione delle misure protezionistiche applicate ai prodotti brasiliani. E, ancora, ha messo a disposizione l’utilizzo da parte degli Stati uniti della base militare aerospaziale di Alcântara.
Niente, tuttavia, in confronto alla promessa del ministro dell’Economia Paulo Guedes di vendere il pré-sal (gli enormi giacimenti petroliferi al largo delle coste brasiliane) nel giro di tre-quattro mesi. E se, a fronte di tutto ciò, l’obiettivo era ottenere il sostegno Usa all’ingresso del Brasile nell’Ocde (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), tale appoggio – è stata la risposta dell’amministrazione Trump – verrà garantito solo in cambio della rinuncia al trattamento speciale di cui il Brasile, come paese emergente, gode all’interno dell’Omc.

LA RINUNCIA comporta una perdita certa di benefici nelle transazioni economiche internazionali, in cambio del vantaggio assai incerto di far parte di un “club dei ricchi” dalle regole non particolarmente favorevoli ai paesi emergenti. Ma, come ha sorprendentemente commentato Bolsonaro al riguardo, «qualcuno doveva cedere». E guarda caso ha ceduto lui.
In compenso, in un impeto di generosità, Trump è arrivato a promettere di «indicare il Brasile come un importante alleato extra-Nato», se non ad appoggiare la sua stessa adesione all’Alleanza atlantica, pur ammettendo che in tal caso bisognerebbe «parlare con molte persone». Una possibilità, quest’ultima, sicuramente non conveniente per il Brasile, dal momento che, tra i principali bersagli della politica Usa, si trovano proprio alcuni dei suoi maggiori soci commerciali, come Cina, Russia e Iran.

UN CAPITOLO A PARTE merita la questione del Venezuela, uno dei punti centrali trattati dai due presidenti, divisi solo dall’opzione per il ricorso alla forza (scartato come è noto dall’ala militare brasiliana). Al riguardo, Trump ha evidenziato come il suo governo non abbia ancora applicato «le sanzioni più dure» nei confronti di Maduro, e, di conseguenza, restino carte da giocare prima dell’intervento armato, ma comunque insistendo che «tutte le opzioni sono sul tavolo». E Bolsonaro non ha chiuso del tutto la porta, evitando di pronunciarsi sulla possibilità di consentire la presenza di truppe nordamericane sul suolo brasiliano: «Certe misure non possono essere divulgate».

IMMEDIATA LA REAZIONE del governo Maduro, che ha «respinto con forza» le «pericolose dichiarazioni» dei due presidenti, ribadendo il proprio impegno a «continuare a lavorare in conformità con la legge internazionale per garantire la creazione di una zona di pace in America latina e nei Caraibi».