Se Stefano Cucchi non fosse stato pestato fino a spezzargli la schiena, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009, mentre era trattenuto dai carabinieri che lo arrestarono, «verosimilmente» non sarebbe morto. A riferirlo ai giudici della Prima Corte d’Assise, nell’udienza del processo bis che si è tenuta ieri in via straordinaria nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, non è un testimone di parte civile ma il prof. Francesco Introna, coordinatore del collegio di periti nominati nel 2016 dal Gip Elvira Tamburelli che eseguirono a quel tempo l’incidente probatorio necessario a stabilire le cause esatte di morte del geometra romano deceduto una settimana dopo il suo arresto nel reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini.
Proprio quel Francesco Introna alla cui nomina inizialmente si era opposta la stessa famiglia Cucchi e il loro avvocato Fabio Anselmo perché lo consideravano «molto vicino a Ignazio La Russa e a Cristina Cattaneo, il medico legale che firmò la prima perizia d’ufficio sul corpo di Stefano in cui non c’erano tracce delle vertebre fratturate di recente».

Ieri però il capo dei periti, medico legale al Politecnico di Bari, incalzato dalle domande del presidente della Corte, il giudice Vincenzo Capozza, ha ammesso: «Nessuno può avere certezze, però se Stefano Cucchi non avesse avuto la frattura della vertebra S4 non sarebbe stato ospedalizzato; era immobile nel letto e non riusciva più a muoversi per problemi connessi alla frattura. Cucchi non avrebbe avuto la vescica atonica, probabilmente avrebbe avuto lo stimolo alla diuresi e verosimilmente la morte o non sarebbe occorsa o sarebbe sopraggiunta in un momento diverso».

Introna, così come gli altri esperti del collegio peritale sentiti ieri in udienza (Cosma Andreula, Vincenzo D’Angelo e Franco Dammacco), hanno di fatto rivisto quanto affermarono nel 2016 in fase di indagine preliminare, prendendo atto evidentemente del bagaglio di evidenze emerse durante il dibattimento e alla luce dell’inchiesta integrativa sui depistaggi aperta dal pm Giovanni Musarò. Anche se il capo del periti, rispondendo alle domande della difesa di uno dei cinque carabinieri imputati, ha ammesso di aver dato in passato una diversa interpretazione, peraltro già più volte confutata durante il processo bis, che presupponeva una condizione di deperimento fisico di Stefano prima di essere arrestato, non si sa bene se dovuta al suo passato da tossicodipendente, alla sua magrezza strutturale o all’epilessia di cui soffriva. Condizioni che, secondo l’accusa e la famiglia della vittima, nulla hanno a che vedere con la morte di un giovane di 32 anni che fino al giorno del suo arresto si era allenato in palestra e che ambiva a praticare costantemente la boxe. «Cucchi è morto per una concatenazione di diverse cause, non abbiamo mai detto che l’epilessia fosse l’unica causa della morte», hanno precisato ieri i periti che stranamente dimenticano, tra le «concause della morte», la frattura della vertebra L3 avvenuta contestualmente alla frattura della S4, evidentemente considerando poco influente le conseguenze psico-fisiche di un trauma di questo genere sulla vittima. Di fatto però il processo ha subito ieri l’ennesima accelerazione verso quella «verità processuale» che la famiglia Cucchi auspica e attende da tempo. «Ci sono voluti dieci anni, sono invecchiata in queste aule di tribunale – ha commentato infatti Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, a fine udienza – e finalmente oggi per la prima volta sento un perito affermare che se Stefano non fosse stato vittima di quel pestaggio che gli ha causato quelle lesioni, non sarebbe mai finito in ospedale e quindi non sarebbe mai morto». «Ora – ha aggiunto l’avvocato Fabio Anselmo – nessuno potrà dire che Stefano Cucchi è morto per colpa propria».

Nella prossima udienza, il 26 giugno, saranno sentiti i periti di parte. Nel frattempo, il 17 e il 18 giugno si terranno le udienze preliminari davanti al Gup per decidere sul rinvio a giudizio chiesto dalla procura di Roma per otto carabinieri (il generale Alessandro Casarsa, i colonnelli Lorenzo Sabatino e Francesco Cavallo, il maggiore Luciano Soligo, il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, il capitano Tiziano Testarmata e i militari Luca De Cianni e Francesco Di Sano) accusati a vario titolo di aver depistato e insabbiato la verità per quasi dieci anni.