Ritorna ciclicamente, nel dibattito sul lavoro, il conflitto tra giovani e vecchi (vedi ultimi intervento di Mario Draghi) un po’ come se ci si trovasse di fronte ad un gioco a somma zero: via un vecchio dentro un giovane. Tuttavia, se guardo Romeo il mio anziano vicino di casa che ha una piccola bottega per riparare divani so che il suo posto non verrà preso da nessuno, il suo lavoro come quello di tanti altri piccoli artigiani andrà via con lui.

È sempre successo con quella che gli economisti chiamano la distruzione creatrice: sparisce la bottega, ma nel contempo nascono altri lavori, altre professioni. Da tempo questo processo si è interrotto: sono più i posti di lavoro che spariscono che quelli che nascono, non è una questione di generazioni, ma di un sistema economico che si arricchisce senza generare posti di lavoro e non garantisce nemmeno la restituzione pubblica che il vecchio capitalismo dava alla collettività attraverso le tasse (il lavoro era una possibilità di libertà). Per rendersene conto basta vedere quanto risibili siano i guadagni imputabili al fisco rispetto alla ricchezza totale prodotta dai colossi del web. Questo, tuttavia, non è l’unico cambiamento che c’è tra la generazione nata negli anni ’50-60 e quella successive perché oltre all’economia è cambiata anche la società: costituita più da individui che da gruppi coscienti di avere un destino comune (una volta le chiamavano masse).

Oggi «il tuo problema non è uguale al mio», non perché non esista un nucleo consistente di persone in condizioni di lavoro incerto, sotto-pagato, precario, ma perché non c’è il senso di appartenere ad una classe: non si sente di essere parte di una causa comune (manca la coscienza di classe). Non resta quindi che la solitudine del cercare di uscire da «soli» dai problemi perché il tuo problema è solo tuo (anche se è uguale a mille altri) quindi «via il lui dentro io». E anche se il posto di Renzo Piano non può essere occupato da nessun altro che Renzo Piano, vi sono posizioni «minori» a cui si può quantomeno ambire. In termini generali può spostare i livelli occupazionali dello 0,00001%, ma a livello personale è tutto, fa il 100%, è il passaggio da una condizione di precarietà permanente ad una con qualche stabilità: in sintesi il posto ti traghetta dalla modernità liquida a quella solida.

Ho 49 anni e 10 mesi, una laurea in economia e commercio, un dottorato di ricerca in sociologia e il contratto di lavoro più lungo che ho avuto è stato il dottorato quando mi hanno pagato consecutivamente per ben tre anni di seguito. Era il 2001 e all’epoca era considerato un contratto precario, adesso sarebbe un orizzonte auspicabile. Con gli anni non ti manca solo il posto, ma l’essere riconosciuto come persona. Sarebbe auspicabile un processo di inclusione dove non solo si lotta per dividere meglio la torta, ma anche per allargarla: come una barca dove più salgono persone, più diventa grande e più si ingrandisce, più c’è posto per altri.
Come Szymborska, in sogno vivo su un’isola dove c’è posto per tutti, non c’è distinzione tra vecchi e giovani, il lavoro è un diritto, il manifesto vende milioni di copie e questo garantisce più libertà di opinione e maggiore democrazia: non si arriva prima (o al posto) degli altri, ma lontano.