«Abbiamo protestato e allora il padrone ci ha aumentato la paga da 4 a 5 euro, ma in busta ci sono sempre tre ore al giorno invece che dieci», racconta Sin Kamlgit che ha 55 anni e lavora a Sabaudia da 10 anni. «Da quando ci siamo iscritti alla Cgil ci guardano male: raccogliamo zucchine in condizioni più dure, ma almeno il contratto è rispettato», spiega Karampreet che di anni ne ha 25 ed è arrivato solo da un anno. Generazioni di indiani a confronto nella lotta per i diritti.

Quasi nessuno parla un italiano fluente. Si riuniscono in gruppi, alcuni anche ieri scrivevano i loro nomi e numeri di telefono per un sindacalista Uila su un foglio appoggiato sulla schiena di uno di loro. Basant, baffi lunghissimi e faccia fiera, racconta che «non tutti padroni sono cattivi, ma in molti ci sfruttano, e poi non è possibile che accadano fatti come quelli di Terracina». Geet, turbante blu elettrico, dice di non aver vissuto situazioni così disperate, ma che il lavoro è duro e la paga è troppo bassa. In realtà per tutti i problemi sono sempre gli stessi: «Pochi soldi, orario è troppo lungo, lavoro troppo duro». Tutti quelli che sono qui, però, e non sono pochi, credono che il sindacato li possa aiutare. Anzi molto spesso «ci ha già aiutato», dicono, sono i soli che fanno qualcosa per noi, sono amici».

La loro sindacalizzazione va avanti soprattutto grazie all’impegno dei furgoncini del «Sindacato di strada» della Flai Cgil. A guidarne uno c’è Laura Hardeep, ragazza nata in Italia da famiglia indiana. «Mia madre lavorava nei campi fino a due settimane prima di partorirmi, mio padre lo ha fatto per dieci anni. Io sono nata a Cori, ho lavorato in campagna anche io e adesso mi considero privilegiata a poter aiutare tanti braccianti come i miei genitori». Nata a Cori, di indiano ha i lineamenti e il colore della pelle. Non certo la cultura. «Sono e mi sento italiana, ora sono delegata della Flai di Latina e Frosinone», specifica chiarendo che non vuole essere chiamata «mediatrice culturale». Ha in mano il volantino dello sciopero in lingua indiana. È il punto di riferimento di tanti braccianti che la cercano e le chiedono dove andare. Anche il fatto che sia una donna è stato superato con pazienza. «Le persone si rivolgono a noi per una miriade di problemi, non solo lavorativi: dai figli alla sanità, dalla moglie ai documenti. Noi cerchiamo di aiutarli e di inserirli in un sistema di tutele complessivo. Quando capiscono che si possono fidare, tornano e si iscrivono, quasi tutti facendo la richiesta di disoccupazione, che in agricoltura è al contrario: la fai quando lavori», spiega Laura.

«Da quando gli indiani si sono ribellati è partita una sostituzione etnica», denuncia. «Gli imprenditori senza scrupoli li lasciano a casa e prendono i richiedenti asilo che non hanno bisogno di un letto perché stanno nei centri di accoglienza e quindi si possono pagare di meno». Un fenomeno in aumento esponenziale nelle campagne pontine e non solo.

Il passo successivo alla sindacalizzazione è l’auto organizzazione. A questa aspira Harvinder Singh, ex ingegnere che dal 2011 aiuta Marco Omizzolo e la sua associazione Tempi Moderni. «Prima facevo documentari per denunciare la situazione di sfruttamento verso i miei connazionali. Ora giro l’Italia tenendo corsi di italiano, soprattutto nei templi sikh», racconta orgoglioso con la sua barba grigia. «Non porto il turbante perché giro in moto e per questo molti mi vedono come un italiano», scherza ridendo. «Sono soprattutto i giovani di seconda generazione ad essere pronti a organizzare i propri compagni a rivendicare i diritti, che sono universali: negli anni novanta gli indiani d’Italia puntavano a far studiare i ragazzi all’estero. Dai primi anni duemila invece li hanno lasciati crescere qui. Con una trentina di ragazzi punto a costruire una rete che sia realmente indiana, che non sia direzionata dall’esterno come inevitabilmente succede coi sindacati. Intendiamoci, il loro lavoro è prezioso, però credo che per ottenere una vera autonomia e veri diritti serva che la direzione sia fatta da indiani: non è possibile che tutti i progetti per l’integrazione dei migranti siano fatti da associazioni italiane», denuncia.