25 magistrati annunciano, con una lettera aperta, l’ uscita da Magistratura democratica e, più o meno silenziosamente, fanno le valigie anche gli aderenti al gruppo eletti nel Csm. Come in tutte le scissioni, chi se ne va rivendica la fedeltà alle origini, anche attribuendo ai «padri fondatori» posizioni fantasiose.

Conviene, allora, partire dall’inizio. Non per inutili amarcord ma per non cedere a un contingente senza princìpi e valori. Cosa ha significato Md nella vicenda della magistratura italiana? Molte cose, ovviamente, ma, prima di tutto, la rottura del modello tradizionale di giudice e di pubblico ministero partecipe del sistema di potere, chiuso in una torre d’avorio, separato dalla società, insofferente alle critiche. Quel che si verificò sul finire degli anni Sessanta, grazie all’irruzione di Md, fu – per usare le parole di G. Borrè «la rottura di miti antichi, autorevoli, mai posti in dubbio. E, al tempo stesso, il “disvelamento” che non tutti i diritti erano tutelati in modo uguale; che l’accesso alla giustizia non era affatto uguale per tutti; e viceversa che esistevano, nella giurisdizione repressiva, sacche di impunità, essendo la repressione pressoché esclusivamente indirizzata a fasce di devianza marginale o contro il dissenso politico. Ma il “disvelamento”, per essere davvero tale, per essere davvero forte, doveva diventare critica dall’interno, presa di distanza; critica, dunque, anche di singoli provvedimenti giurisdizionali da parte di un gruppo di magistrati come tale. Insomma occorreva consumare uno scisma dentro la cittadella della giurisdizione».

Lo scisma, l’eresia è stata la cifra di Md, che ha inciso profondamente sulla cultura dei giudici e, conseguentemente, sui contenuti della giurisprudenza. Non ha – né avrebbe potuto farlo – cambiato la magistratura ma l’ha resa più consapevole, ha fatto emergere la politicità della giurisdizione e delle scelte interpretative, ha denunciato omissioni e cadute di garanzie. E lo ha fatto partecipando al dibattito pubblico e criticando, quando necessario, specifiche scelte processuali.

Come spesso accade, nel tempo, la spinta innovativa del gruppo si è affievolita e, nel nuovo millennio, mentre nel Paese crescevano populismo penale e repressione, gli eretici hanno scoperto l’ortodossia, spesso appiattiti sull’esistente. È su questo crinale che si colloca l’odierna scissione. Oggi, infatti, i temi su cui si gioca la partita della giustizia sono, di nuovo, il carattere diseguale dell’intervento giudiziario, una repressione crescente in cui le garanzie cedono alle ragioni dell’ordine pubblico, un continuum tra potere politico e magistratura (solo all’apparenza incrinato da iniziative eclatanti e non di rado avventuriste). E ancora una volta la divisione che attraversa la magistratura progressista riguarda la priorità accordata ai contenuti della giurisdizione o agli organigrammi, al «punto di vista esterno» o alle logiche corporative e la disponibilità a scelte di rottura o il rifiuto di ogni conflitto interno.

Su questi temi Md ha accumulato da ultimo non pochi ritardi, ma i protagonisti della scissione e la loro area di riferimento, lungi dal colmarli, sembrano muoversi nella direzione opposta. C’è, in ogni caso, un banco di prova che vale più delle affermazioni di circostanza. È quello degli atteggiamenti e dei comportamenti di fronte ai problemi più urgenti della giustizia (e, prima ancora, alla loro individuazione). C’è, oppure no, nella giurisdizione penale una spirale repressiva che mette in forse diritti fondamentali? Il carcere, quantitativamente quasi raddoppiato negli ultimi 50 anni, è un problema che tocca anche il quotidiano di giudici e pubblici ministeri o è un pianeta che non li riguarda? Lo scarto abnorme tra procedimenti (e custodie cautelari) e accertamento di responsabilità è un fatto fisiologico o una patologia? La discrezionalità incontrollata che ha sostituito di fatto l’obbligatorietà dell’azione penale va corretta e governata o è una prerogativa intoccabile delle Procure? E, ancora, gli uffici direttivi devono essere incarichi temporanei o tappe di un cursus honorum all’ombra del potere? E l’autonomia di giudici e pubblici ministeri è scalfita oppure no dalle numerose e prolungate permanenze in uffici ministeriali o in incarichi di nomina politica alternati alle funzioni giudiziarie?

Saranno le risposte pubbliche ed esplicite a queste (e ad altre analoghe) domande – in astratto, ma soprattutto con riferimento ai casi concreti – a dire chi è coerente con i princìpi ispiratori di Md e, soprattutto, chi cerca davvero strade progressive per uscire dalla crisi della giustizia.