Secondo Turchia e Stati Uniti il giornalista arabo saudita Jamal Khashoggi è stato trucidato all’interno del suo consolato ad Istanbul per ordine della monarchia di Riyad. Il giornalista voleva lanciare un movimento online per denunciare gli abusi del principe ereditario Mohammed bin Salman ma fu scoperto grazie a un software spia dell’azienda israeliana Nso group.

O almeno questo è quello che sostiene il suo collega e amico Omar Abdulaziz. E la stessa tesi è stata sostenuta anche da Snowden in un convegno del mese scorso. La notizia, riportata dal Corriere della Sera, è stata smentita dalla stessa azienda sul Times of Israel che ha più volte denunciato lo strapotere delle imprese israeliane di cybersecurity sotto controllo governativo.

Per il Citizen Lab di Toronto non ci sono dubbi che i software spia di Nso Group siano stati usati per silenziare attivisti per i diritti umani in 45 paesi del mondo, dall’Egitto al Messico.

Non sappiamo quali nuove rivelazioni ci attendono ancora nell’affaire Khashoggi, ma già oggi sappiamo che in Arabia Saudita le violazioni dei diritti umani di chi usa un computer per difenderli sono all’ordine del giorno, soprattutto contro le donne. Molte di loro sono state infatti arrestate per la partecipazione a campagne online contro il sistema patriarcale saudita che impedisce alle donne di affittare un appartamento o di avere un passaporto senza il permesso di un uomo.

Secondo il Netizen Report di Global Voices, network di blogger e attivisti dedicato alla protezione della libertà d’espressione online, una di loro, Eman Al-Nafjan, autrice del blog Saudiwoman, è agli arresti da maggio con altri attivisti e senza la possibilità di vedere un avvocato. Lo stesso è accaduto a Samar Badawi, sorella del blogger Raif Badawi condannato nel 2014 a 10 anni di prigione e mille scudisciate per «reato di apostasia» commesso attraverso il proprio blog.

Amnesty International ha denunciato di avere ricevuto testimonianze di torture e abusi sessuali nella prigione di Dhahban dove sono imprigionati sia al-Nafjan che Badawi.

Anche Israa Al-Ghomgham e il marito Mousa Al-Hashim, sono stati arrestati per aver usato la rete e difendere i diritti umani delle minoranze religiose a causa dell’Articolo 6 della legge saudita sul Cybercrime avendo postato foto e video di proteste di piazza: l’uomo rischia la pena di morte.

Nel rapporto 2018 di Reporters senza frontiere si spiega come siano stati 63 i giornalisti ammazzati quest’anno, 13 i citizen journalist e 4 stringer. Quattordici solo in Afghanisan. Sono invece 333 gli operatori dell’informazione imprigionati nel mondo.

Nei paesi democratici le cose non vanno meglio. Julian Assange, l’hacker che attraverso Wikileaks ha denunciato l’uccisione di giornalisti e civili iracheni da parte di soldati Usa, è rinchiuso nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per sfuggire alla richiesta americana di processarlo per spionaggio: ci si era rifugiato per sfuggire a un’ordine di cattura svedese legato a un reato mai provato. Sotto stretta sorveglianza della polizia inglese, non può più uscire perché verrebbe estradato e giustiziato negli Usa. Un’indagine delle Nazioni Unite ha chiarito che la «detenzione» di Assange è arbitraria, illegale, e che suoi diritti umani e la sua libertà sono stati violati.

Ma anche quelli di tutti noi. Come ha detto lo scrittore Bryan Leon: «La guerra per la libertà di espressione e la libertà di stampa è ora a una congiuntura sanguinosa. Proteggiamo questi informatori o ne subiremo le conseguenze». Per sempre.