Piero Bevilacqua ha pubblicato con Donzelli, con il titolo Il cibo e la terra (pp. 216, euro 13), una nuova edizione di un instant book uscito quasi vent’anni fa – La mucca è savia – quando gli allevamenti europei furono interessati dalla diffusione del morbo di Creutzfeld-Jacob, detto della mucca pazza, che aveva portato all’abbattimento di almeno 180mila capi, ma che aveva provocato anche la messa al bando della bistecca per arginare la trasmissione di quella malattia mortale agli esseri umani che se ne cibavano.

QUESTA NUOVA EDIZIONE, riveduta, corretta e piena di dati aggiornati, è arricchita di un corposo terzo capitolo dedicato a Trionfo e declino dell’agricoltura industriale che, insieme alla critica del presente, contiene la prospettiva di una trasformazione non solo agronomica, ma sociale e a suo modo anche esistenziale, che sorregge tutto l’impianto del libro.
Bevilacqua non è un agronomo né un veterinario, anche se dimostra una notevole dimestichezza con i problemi e i risultati di queste discipline. Il suo sguardo è essenzialmente quello dello storico che si è misurato a lungo con temi connessi alla gestione del territorio e all’intreccio tra società e ambiente: in questo, in parte anticipando e in parte raccogliendo i temi ispiratori dell’enciclica Laudato sì, esplicitamente richiamata nel suo testo.

PROPRIO L’APPROCCIO storico e sociale, per lo più assente o comunque carente negli studi che trattano di agricoltura e alimentazione da un punto di vista tecnico, o ambientale, o sanitario, permette all’autore di delineare con forza il disastro verso cui ci stanno trascinando le trasformazioni attraversate in poco più di cent’anni con la gestione industriale delle coltivazioni e dell’allevamento.
Tutto era cominciato con un cambiamento virtuoso: la rivoluzione agricola che aveva interessato le campagne europee nel Settecento. L’introduzione di colture foraggere leguminose aveva permesso di sostituire alla periodica messa a riposo di una parte dei terreni coltivati una rotazione che ne accresceva la produttività e consentiva l’allevamento in stalla, arricchendo di concime naturale i terreni e aumentando del pari anche le fonti dei redditi contadini. Era stata questa crescita complessiva della produzione agricola in tutto il continente – Bevilacqua non cita tra le cause l’introduzione di colture a maggior rendimento per ettaro, come la patata e il mais – benefica anche per la qualità dei suoli, che ha reso possibile l’alimentazione di una moltitudine di esseri umani trasferiti dai campi alle fabbriche per dare vita alla successiva rivoluzione industriale.

MA QUESTO PROCESSO si è rapidamente invertito con l’introduzione forzata di input che non provenivano più dal mondo agricolo, ma dall’estrazione di risorse non rinnovabili come il guano e i fosfati, o da lavorazione industriali a elevato consumo energetico – di petrolio e gas naturale – come la motorizzazione, i fertilizzanti azotati, gli erbicidi, i pesticidi, le sementi prodotte al di fuori del circuito di scambio tra contadini (più tutto quello che accompagna la trasformazione dei prodotti agricoli in cibo e la loro distribuzione: imballaggi, magazzini, catena del freddo, industrie di trasformazione, supermercati, pubblicità, ecc). Il mondo della chimica si è riversato sui campi, considerati sempre meno un organismo vivente e sempre più un mero supporto inerte di operazioni di carattere industriale.

PEGGIO È ANDATA per gli animali domestici, con una progressiva «ospedalizzazione», degli allevamenti intensivi, dove gli animali sono considerati semplici macchine per produrre carne, latte, uova o pelli in condizioni che preludono – Bevilacqua in realtà non ne parla – ai campi di lavoro e a quelli di sterminio degli umani. E in cui, come con le colture, ogni ulteriore trattamento viene introdotto per lo più per ovviare a problemi creati da trattamenti precedenti, ormai giudicati comunque indispensabili per tenere in piedi la produzione industriale del cibo: più fertilizzanti per ovviare alla sterilizzazione dei suoli, più antibiotici per prevenire le malattie provocate dall’affollamento degli allevamenti, più pesticidi per compensare lo sterminio dei predatori naturali, ecc. E ovviamente, più medicine e terapie – per chi può permettersele – per curare il deterioramento della salute umana provocato dalla qualità sempre peggiore di cibo, acqua e aria.

Bevilacqua punta il dito sulla causa di fondo di questa degenerazione: una scienza cresciuta in laboratorio, che considera solo gli effetti immediati di ogni singolo input, senza guardare al contesto in cui questi processi si inseriscono: contesti che sono ecosistemi e che solo un approccio olistico consente di valutare per i suoi effetti di lungo periodo.
Un discorso che vale, a maggior ragione, per gli Ogm. Ma sono ormai numerose le esperienze dei nuovi contadini che, unendo saperi tradizionali e risultati della ricerca scientifica, aprono un varco alla rigenerazione dei suoli, dei prodotti agricoli, degli allevamenti, del cibo e delle nostre vite. L’industrializzazione dell’agricoltura e l’ospedalizzazione degli allevamenti richiamano alla mente anche la controversa questione della moltiplicazione obbligata dei vaccini negli umani, anche in contesti che non presentano minacce epidemiche; con una progressiva medicalizzazione non della malattia, ma della salute.