Una delle sfide del Billy Budd di Britten è rendere credibile una vicenda che si svolge interamente su una nave da guerra inglese di fine settecento. L’emozionante spettacolo di Deborah Warner, fino al 15 maggio in scena all’Opera di Roma, già premiato con un Abbiati speciale a Madrid, presenta un’ardita realizzazione scenografica di Michael Levine che restituisce al tempo stesso gli spazi angusti del galeone, con la promiscuità della ciurma e le distanze gerarchiche, e l’immensità dell’oceano, elemento marino così caro a Britten. «Per superare l’impasse nella rappresentazione della nave l’abbiamo dissolta utilizzandone i soli elementi tecnici – spiega Deborah Warner – basandoci sul contatto viscerale dei marinai con le sartie. Anche in teatro i tiri con le funi sono fondamentali, questo parallelo è stato stimolante e di grande utilità. In scena abbiamo alberi, vele che si dispiegano in scena e tre piattaforme che possiamo muovere e sollevare autonomamente, rivelando l’interno del vascello: il ponte su cui si svolgono le azioni, lo spazio sottocoperta, fitto di amache in cui dorme la ciurma; l’elegante alloggio del capitano Vere, separato dal resto della nave».

Rispetto alla novella di Melville , che sottolinea le implicazioni politiche fra inglesi e francesi rivoluzionari, il libretto che E. M. Forster e Eric Crozier realizzarono per l’opera, creata nel 1951 a Londra, si concentra sulle relazioni fra i personaggi, portandone allo scoperto le fortissime tensioni omoerotiche. Relazioni che Deborah Warner riporta a un’essenza teatrale shakespeariana, senza reali preoccupazioni di genere: «La chiave è la disposizione triangolare fra i tre protagonisti dell’opera, che in Shakespeare saprei ritrovare solo in Giulio Cesare – sottolinea la regista. All’apparenza abbiamo il maestro d’armi Claggart, il male, il diavolo, il capitano Vere, il bene che combatte Claggart, infine Billy Budd, una sorta di angelo vendicatore. Tuttavia ciascuno dei personaggi porta qualcosa dell’altro nascosto in sé stesso, una mescolanza vibrante da cui origina un vortice di esperienze umane che supera ogni determinazione di genere per attingere al dramma universale. Sono stata la prima a affidare a una donna la parte di Riccardo II e quando l’abbiamo messo in scena a Londra con Fiona Shaw mi aspettavo una rivelazione che non è arrivata: quando un grande attore affronta Shakespeare le parole riguardano il suo personaggio prescindendo dal genere. Così anche Billy Budd di Britten si proietta totalmente nel territorio dell’universale».

Pesa forse l’assenza di presenze femminili in scena… «Britten riesce a inventare un universo sonoro in cui l’assenza della voce femminile non viene percepita, mentre sul piano psicologico c’è una tenerezza, al cuore del dramma, davvero toccante. Generalizzando, se la tenerezza ha un tratto femminile, quest’opera ne è piena. All’inizio – aggiungere Warner – ero paralizzata, ma appena abbiamo iniziato le prove ho cominciato a trovare le soluzioni: accento alla musica c’era la scena, la carne viva degli attori, i diversi punti di vista, la complessità dell’essere umano, irriducibile a una tipologia fissa di buono o cattivo, corrotto o innocente. Ogni semplificazione in Billy Budd danneggia l’opera, perché c’è molto di più da raccontare al di là di una storia di relazioni omosessuali su una nave».

A giudicare dalla palpabile intensità di impegno dell’ampio cast, guidato dal Vere di Toby Spence, da John Relyea – magnifico Claggart – e dal Billy Budd vigoroso di Phillip Addis, la regista è riuscita pienamente nel suo intento, grazie anche alle luci straordinarie di Jean Kalman. Orchestra e coro hanno reso al loro meglio in una partitura di notevole difficoltà, specie sul piano idiomatico, grazie alla direzione nitida ma estremamente partecipe e attenta di James Conlon.