Femminicidi, tanti in Italia, ma forse ancora più numerosi i fenomeni di violenza che neanche si possono verificare, dalle aggressioni verbali e quelle fisiche. E a Modena un centro (LDV «liberiamoci dalla violenza»)è stato aperto per un recupero psicologico dei maschi violenti, iniziativa visitata con grande rispetto e determinazione da Elisabetta Lodoli, regista che ha spesso indagato i lati oscuri delle psicologie (a cominciare dal suo esordio La venere di Willendorf) Dopo l’anteprima di «Ma l’amore c’entra?» alla Festa di Roma e la presentazione ufficiale a Modena Elisabetta Lodoli sarà in Basilicata il 25 a Montalbano Jonico e il 29 ad Alghero.
Tre uomini di cui non vediamo i lineamenti, a turno e poi insieme in una stanza semibuia confessano le dinamiche delle loro violenze domestiche, raccontano gli episodi che hanno fatto scoppiare la rabbia incontrollabile e che li ha portati a decidere di seguire una terapia. Uno di loro voleva anche autodenunciarsi, ma è stato impossibile, solo la vittima può farlo. La rabbia può scattare addiritttura per il tono di voce troppo alto della moglie («ci sono già io che alzo la voce, dice uno come fosse una sua prerogativa) oppure offeso dal suo silenzio rancoroso («lo sento come una mancanza di rispetto». Si stenta sempre a credere che siamo tornati dopo anni di lotte femministe, all’epoca patriarcale di tipo ottocentesco.
Che tipo di centro è quello di Modena?
È l’Azienda sanitaria di Modena, un servizio pubblico della Regione, del servizio sanitario nazionale. Ne hanno aperto un altro a Parma e ne apriranno a Bologna e Rimini entro la fine dell’anno. In altre parti d’Italia probabilmente ce ne sono tanti ma privati.
Come avete lavorato su questo materiale umano?
Io mi sono rivolta a questo centro e loro sono stati apertissimi perché non mi conoscevano, non sapevano chi fossi, però alla richiesta di fare un documentario mi hanno permesso di potermi confrontare con loro e mi hanno fatto incontrare tre uomini che erano ormai alla fine di questo trattamento e che erano disponibili a dare la loro testimonianza. Li ho potuti incontrare senza la presenza degli psicologi e li ho intervistati insieme alla sceneggiatrice Severina Iacobelli e a Roberta Barboni la produttrice. Siamo sempre state delle donne di fronte a un uomo. Li abbiamo incontrati nell’arco di due anni, anche se con una frequenza molto diradata.
Quanto dura il trattamento?
A seconda degli individui da un anno a due anni. C’è una parte di terapia individuale e poi chi vuole fa anche la terapia di gruppo che dalle loro testimonianze risulta essere un momento di grande crescita, un tipo di autocoscienza con altri uomini diversi per provenienza, età, ragioni sociali.
Nel film sono interpretati da attori
Non potevo farli riconoscere né usare voci contraffatte perché non mi piacciono, quindi ho deciso di usare degli attori a cui ho chiesto di liberarsi della dizione. Sono degli attori locali e li ho messi in scena senza renderli riconoscibili, visti in controluce.
Sembrerebbe quasi un materiale pronto per uno spettacolo teatrale
L’idea di usare il teatro come spazio mi è venuta in un secondo momento perché è stato un lavoro lungo con riprese concentrate in due momenti diversi: prima sul paesaggio e l’ambientazione delle case, quelle che immaginavo potessero essere le loro abitazioni, poi ho immaginato uno spazio altro che potesse rappresentare anche simbolicamente la casa, l’interno, il luogo dove queste violenze si consumano, «la cucina simbolica». E infine li ho messi insieme (quando li abbiamo intervistati li abbiamo incontrati sempre individualmente). Mi sono permessa questa forzatura dando l’idea che fosse anche il luogo della terapia, della casa, un luogo un po’ misterioso. E infatti vedendoli così uno pensa anche che si potrebbe fare una rappresentazione teatrale. La cosa che non è stata assolutamente manipolata è il testo: scelto, selezionato, perché abbiamo ore e ore di interviste: è la parte documentaristica che non è stata toccata.
Trovo che sia un film in bilico tra la guarigione e le questioni che rimangono in sospeso e che loro stessi non riescono a capire.
Assolutamente. È un film sulla «possibilità» di un cambiamento. Infatti abbiamo molto discusso sul finale. Uomini e donne hanno una reazione diversa. Per me il finale è di cambiamento, di apertura. Quell’uomo ha per lo meno imparato a gestire la violenza. Non c’è un happy end, ma se questa coppia resiste, quest’uomo ha degli strumenti e la consapevolezza almeno per saper gestire la rabbia e molte domande rimangono aperte, sulla rabbia, sulla cultura, sull’intimità del rapporto (su cui io non potevo neanche andare troppo a fondo).
Invece gli uomini come lo vedono quel finale? Io l’ho trovato agghiacciante perché l’aggressività femminile viene vista in ogni caso come fenomeno incomprensibile
Per me c’è un uomo che ha imparato a gestire la rabbia che è un grande passo avanti, perché non possiamo dire che non avremo più la rabbia che è un sentimento normale ma che se si trasforma in violenza fa del male a qualcun altro. Non potevamo essere trionfalistici rispetto al fatto che da lì la vita ricomincia da capo e hai cancellato la memoria di quello che è successo.
Gli psicologi ti dicono che non è una questione di cultura, di formazione?
La violenza è assolutamente trasversale, non è questione di cultura. La frustrazione ce l’hanno tutti, il senso di potere. Ci sono ragioni legate alla propria storia individuale, ma ci sono anche tante situazioni legate al cambiamento culturale sia degli uomini che delle donne, è qualcosa su cui lavorare molto. La violenza come volontà di potenza, non tollerare l’altro se ci si mette di traverso o se decide di interrompere una relazione, ha a che fare con il potere non c’entra niente con la cultura.
Quasi tutti dicono che si trovano di fronte a donne che hanno acquistato potere, persone che non si aspettano.
Uno dei tre lo dice in maniera molto semplice: un’arroganza così fino agli anni settanta io non l’avevo mai vista
In alcuni casi sembrano discorsi da prima degli anni settanta
Il femminismo soprattutto in Italia per alcuni versi ha lasciato tracce profonde, ma è stato molto misconosciuto dalle donne stesse (ad esempio ci sono tante colleghe che fanno fatica a dire di essere «una regista», dicono «un regista»). Io ho cercato di storicizzare anche un po’ visto che quest’uomo mi permetteva un piccolissimo approfondimento di far vedere il contesto dentro il quale questo cambiamento delle donne più o meno consapevole, perché ci sono anche donne di potere ma non hanno esperienza femminista alle spalle. Il fatto che oggi le donne siano anche più autonome nelle decisioni destabilizza molto il rapporto col maschio. È un cambiamento che non si ferma ma abbiamo anche delle belle regressioni e anche confusione rispetto a cosa vuol dire il potere delle donne. Penso che il potere delle donne sia stato esercitato anche in modo che noi che veniamo da un’esperienza femminista non riconoscerebbero mai come espressione di un potere, penso alla prostituzione femminile all’epoca di Berlusconi, che usavano il loro corpo pensando anche di esercitare un potere nuovo.
In certe frasi c’è il ricordo di un vissuto disturbante. Non si pongono il problema della parità.
Forse solo in uno, dice che non lo ha fatto per la donna ma per difendere i figli, per riparare un’ingiustizia, spesso per alcuni di loro è così. La violenza di cui parlo io avviene all’interno delle mura domestiche, delle relazioni affettive. È molto diffusa e questi sono uomini normali, nel sociale funzionano perfettamente. Per questo il titolo dice «ma l’amore cosa c’entra con la violenza?», un titolo che ho mutuato da varie riflessioni scritte che ha fatto Lea Melandri che ha scritto tanto sul rapporto tra amore e violenza. Si interrogava dicendo che forse bisogna indagare profondamente sulle relazioni che noi intrecciamo sotto il cappello dell’amore perché è là che si annidano le basi di questi rapporti violenti. Le relazioni «amorose» vanno riviste, investigate: se gli uomini che commettono violenza, la commettono su donne a loro vicine, mogli, ex fidanzate, ex mogli, figlie, sorelle, qualcosa ci sarà da rivedere su quello che chiamiamo amore.