La recente presa di posizione delle Nazioni Unite, contro quella che Cristina Kirchner chiama «la democratizzazione della giustizia», ha dato rango internazionale alle proteste contro un pacchetto di leggi, che molti credono andrà a colpire le garanzie di separazione tra poteri su cui poggia la Repubblica. Usando questi stessi termini scelti ora anche dall’Onu, migliaia di persone si sono radunate nella notte in cui sono state votate le prime norme della riforma, per manifestare il loro dissenso davanti al parlamento. Solo un paio di giorni prima, molte di più avevano riempito la Plaza de Mayo e gli altri principali centri del paese per chiedere la fine del governo Kirchner.

[do action=”citazione”]Monta la protesta: al «vogliamo la libertà di parola», «basta corruzione» e «no alla riforma dela Costituzione», che permetterebbe a Cristina di candidarsi a un terzo mandato nel 2015, oggi si aggiunge un «vogliamo che la giustizia resti indipendente»[/do]

Quando mancano 5 mesi alle elezioni legislative, è difficile stabilire se quello che mostrano le piazze sia un campione di ciò che pensa gran parte della cittadinanza o se sia solo il fragore di una sua parte molto attiva, che però fatica a riconoscersi nei politici dell’opposizione e che non ha i numeri per fare il 50 più uno. Il movimento di protesta che dopo quattro anni di silenzio ha resuscitato nello scorso settembre la pratica di manifestare sbattendo i mestoli sulle pentole, cresce oggi con dinamiche simili a quelle usate dagli indignados spagnoli. Ma dopo essersi autoconvocato on line e aver ribadito il taglio pacifico delle sue mobilitazioni, porta in strada reclami che invece appartengono alla cultura neoliberale.

Al «vogliamo la libertà di parola», «vogliamo protezione dal crimine di strada», «vogliamo meno inflazione», «basta corruzione» e «no alla riforma dela Costituzione», che permetterebbe a Cristina di candidarsi a un terzo mandato consecutivo nel 2015, oggi si è aggiunto anche un «vogliamo che la giustizia resti indipendente». A quest’ultima posizione, hanno aderito in forma inedita gli stessi giudici e i think tank della sinistra peronista, che solitamente appoggiano il governo. Ma mentre le loro critiche sono state ascoltate dalla Casa Rosada e in gran parte anche accolte, quelle degli altri rimbalzano sul muro di gomma che Cristina gli interpone.

Le entità disposte a raccogliere queste argomentazioni dal pavimento e farne un programma elettorale, più o meno esplicitamente firmato, sarebbero molte: le camere dei grandi e medi proprietari terrieri, che fanno un bel pezzo di Pil e che nel 2008 furono il primo vero movimento antagonista; i sindacati della destra operaia e peronista, che hanno appoggiato i primi due governi «K» e abbandonato il terzo; il centrodestra di Buenos Aires, che amministra la città da 6 anni a suon di cantieri edili e polizia; o la Chiesa, che adesso ha incassato anche la testa di serie del Papa. Il problema è che nell’ultimo decennio queste forze non sono mai riuscite a creare un fronte unito e chi batte sulle casseruole non ha fiducia in loro.

Intanto, Cristina ha ancora dalla sua i figli prediletti dello statalismo peronista: i poveri, gli industriali e gli intellettuali. I critici denunciano l’esistenza di milioni di sfaticati, che vivrebbero seduti sugli allori dell’assegno di disoccupazione. I difensori dicono invece che i sussidi sono meritocratici. I diretti interessati votano quasi tutti la Kirchner. Allo stesso modo, nel mercato c’è chi crede che il blocco alle importazioni, l’altissima inflazione (che il governo rifiuta di ammettere) e il divieto di acquistare dollari come bene di rifugio dal carovita, stiano soffocando l’economia. D’altra parte, la Confindustria ha appena eletto un presidente velatamente kirchnerista e le grandi imprese benedicono i ceppi all’import che eliminano la concorrenza estera, e poi aderiscono ai crediti facilitati statali in cui sono entrate anche Fiat e Carraro.

Il risultato, è un tasso d’occupazione e di alfabetizzazione che non si vedono da decenni e centinaia di critiche internazionali da autorevole stampa estera e autorevoli organismi. Qundi, dentro alla complessa scala di grigi che la bandiera argentina da sempre proietta nella sua ombra, c’è in realtà un conflitto universale e arcinoto: quello tra le libertà del singolo e i bisogni della società. Un problema non da poco, se si tiene conto che la Costituzione locale è stata scritta sulla base di quella statunitense e che il peronismo è stato invece ispirato dal totalitarismo fascista e dell’Unione Sovietica.

Negli ultimi quattro anni, la stampa che il governo starebbe imbavagliando ha prima creato l’immagine di Nestor e Cristina redentori del paese distrutto dalla crisi e poi quella di Nestor e Cristina corrotti e dittatori. Certamente, in questa amministrazione c’è autoritarismo e corruzione, ma la giustizia che ora si vuole difendere ha molte cause in corso e una sola condanna all’attivo: quella ricaduta sull’ex ministro dell’Economia, Felisa Miceli. D’altro canto, la Costituzione che non si vuole riformare è la stessa carta che ha permesso al kirchnerismo di governare con i decreti quando nel 2009 perse le elezioni di medio termine e si trovò il Parlamento contro. Poi, nel 2011, tornò a vincere le presidenziali col 54% dei voti.
Nel paese del presidenzialismo peronista, i modi migliori per andare al governo sono due: l’apparato di partito e il colpo di stato. Che situazione per i caceroleros.