Interrompere o continuare i contatti con gli Usa? Si è acceso un intenso dibattito tra le forze politiche palestinesi dopo il riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale di Israele fatto da Trump e in vista dell’arrivo nella regione del vice presidente Mike Pence. Hamas, il movimento islamista, non ha dubbi. Il negoziato israelo-palestinese mediato da Washington è una farsa e gli Usa fanno solo gli interessi di Israele, affermano i suoi leader. Non diverse sono le posizioni del Fronte Popolare e delle altre formazioni della sinistra palestinese.

Anche in Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, prevale la linea della fermezza. Su questo punto e altri temi di politica interna palestinese abbiamo intervistato Mustafa Barghouti, leader del partito Iniziativa Nazionale, candidato nel 2005 alla presidenza dell’Anp e, più di tutto, uno degli ispiratori della lotta popolare nei Territori occupati.

Trump, Pence e gli Usa vanno boicottati dopo il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale di Israele?

Sì, senza esitazioni. Accogliere Pence a Ramallah darebbe un segnale di estrema debolezza. Il presidente Abbas (Abu Mazen) e gli altri dirigenti dell’Anp incontrandolo commetterebbero un errore grave in un momento cruciale in cui i palestinesi chiedono di rispondere con il massimo della fermezza. Trump su Gerusalemme ha oltrepassato una linea rossa e Abbas deve tenerlo sempre presente.

Trump ha messo l’Anp di fronte a una sfida la cui posta è la sua stessa sopravvivenza.

Occorre cambiare rotta. Gli americani parlano di nuove iniziative diplomatiche e di Accordi di Oslo ancora vivi ma la verità è che da anni non si muove nulla. Anzi proprio Washington contribuisce alla paralisi avallando apertamente o segretamente le politiche di Israele. Oslo è finito, riconosciamolo. Anche i bambini palestinesi sanno che non c’è più alcuna possibilità di successo per Oslo. Per questo i leader dell’Anp devono lavorare prima di tutto per una concreta unità nazionale palestinese, quindi dovranno dichiarare morto il negoziato di Oslo e concentrarsi, con tutte le forze politiche, nell’elaborazione di una strategia nazionale (palestinese) in grado di realizzare le legittime aspirazioni del nostro popolo sulla base delle risoluzioni internazionali. Altrimenti si ritroveranno isolati.

Un’altra Intifada potrebbe aprire la strada all’elaborazione di questa nuova strategia nazionale?

Senza dubbio, a condizione però che resti non violenta. Penso a una sollevazione popolare contro le politiche di Israele simile a quella pacifica che abbiamo visto lo scorso luglio a Gerusalemme quando Netanyahu ha ordinato l’introduzione di metal detector e altre misure di controllo sulla Spianata delle Moschee. Decine di migliaia di palestinesi, senza far uso della violenza, solo con la loro determinazione, con la loro presenza massiccia e costante nelle strade hanno imposto a Israele il ritiro di quelle misure. Penso che il modello di protesta visto a luglio sia quello ideale per mobilitare la nostra popolazione e per ottenere l’appoggio dell’opinione pubblica internazionale.

A cosa dovrebbe puntare questa nuova strategia nazionale. La soluzione a Due Stati, Israele e Palestina, è ormai impraticabile sul terreno.

La sola alternativa possibile per evitare l’apartheid in cui Israele intende confinarci è la costituzione di un unico Stato democratico per i due popoli in una situazione di piena uguaglianza. Uno Stato in cui potranno tornare nella loro terra d’origine i profughi palestinesi proprio come oggi tutti gli ebrei nel mondo possono trasferirsi in Israele.