Facciamo parlare i numeri: 1157 milioni di euro da spendere nel Lazio e a Roma entro il 2015; di questi, 433 milioni di euro devono essere spesi entro dicembre 2013.
E’ l’ultima deroga che Bruxelles ha concesso alla nostra Regione sulla spesa dei fondi strutturali europei. Mentre le imprese chiudono è grave che i fondi europei non siano stati usati. Urgono due diversi interventi: nel breve termine un provvedimento di credito d’imposta per l’occupazione; in tale modo la regione Lazio può evitare che l’Europa si riprenda tante risorse, e, nel contempo avviare una terapia immediata che crei lavoro. Nel medio termine, per svolgere politiche anticicliche, occorre ripensare la programmazione dello sviluppo: la regione Lazio, per spendere velocemente i fondi e non perderli, può conferirne la metà a Roma: come le altre grandi capitali europee, la Capitale può avere un suo centro di programmazione. Per far questo si pongono tre ordini di questioni. La prima riguarda l’entità dei fondi a disposizione. E Roma avrà sei grandi canali di finanziamento:

A) Innanzitutto i rimanenti 818,8 milioni del periodo 2007/2013 di Fondo Sociale Europeo (Fse) e Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (Fesr). Dopo la riprogrammazione effettuata dall’ex ministro Barca, la regione Lazio nel settennio ha avuto a disposizione 1467,4 milioni di euro: ne ha spesi solo 648,6 secondo l’ultima certificazione (pubblicata sul sito del ministero per la Coesione Territoriale) al 31 maggio 2013. Grazie alla deroga del meccanismo N+2, la Regione ora avrà tempo fino al dicembre 2015 per spendere e rendicontare 818,8 milioni: tra i quali, i suddetti 354,6 milioni vanno usati entro dicembre 2013.

B) Dunque i rimanenti 338,3 milioni del periodo 2007/2013 del Fondo Europeo di Sviluppo Rurale (Feasr: la regione Lazio ha avuto a disposizione nel settennio 700,3 milioni: ne ha spesi solo 362 al 31 maggio 2013 secondo l’ultima certificazione pubblicata sul sito del ministero delle Politiche Agricole. Per evitare che l’Europa li riprenda, il Lazio deve spendere e rendicontare, entro dicembre 2013, 79 milioni, e, il resto entro dicembre 2015.

C) Due miliardi di euro della programmazione 2014/2020 per Fse e Fesr: il Lazio, come le altre regioni del centro-nord, avrà circa il 40% in più della programmazione precedente.

D)700 milioni della programmazione 2014/2020 del Fondo Europeo di Sviluppo Rurale.

E) Circa 3 miliardi di euro del Pon (Programma Operativo Nazionale) per le città metropolitane 2014-2020, gestito dal Governo.

F)Altri 80 miliardi di euro di Horizon 2020, il nuovo Programma Quadro sulla Ricerca 2014-2020, erogati tramite bando da Bruxelles per i paesi Ue.
La seconda questione attiene alla capacità di spesa: l’Ufficio capitolino per l’Europa (struttura già esistente in comune) può divenire un centro di programmazione autonoma per i fondi europei che interessano la capitale, costituendo proprie autorità di gestione, certificazione e controllo: in questo modo, di concerto con la regione Lazio, nessun fondo sarà restituito alla Ue perché l’Amministrazione non è stata in grado di spenderlo. Inoltre, poiché l’incredibile mortalità delle domande italiane per progetti di ricerca finanziati da Bruxelles è del 90%, l’Ufficio per l’ Europa potrebbe connettere le università, le imprese e i possibili partner internazionali, e, assistere la redazione e rendicontazione dei progetti finanziati direttamente da Bruxelles. Come Londra, Parigi e Berlino, Roma, con competenza e rigore, può avere almeno l’1% di quegli 80 miliardi.
Il terzo problema riguarda il nodo politico della programmazione: finanziare chi, per fare cosa; occorre una strategia di medio periodo: ripensare lo sviluppo locale e far risalire il sistema produttivo romano nella divisione internazionale del lavoro. In Italia spesso i fondi europei finanziano non la ricerca, che dovrebbe produrre innovazione, bensì il trasferimento tecnologico; da un lato, le imprese italiane, grazie a contributi a fondo perduto, comprano beni strumentali prodotti all’estero (alimentando la domanda di imprese straniere con risorse pubbliche italiane), dall’altro, le università partecipano ai bandi della ricerca solo come subappaltanti delle imprese e non come capofila. Tutto ciò va superato.
L’Ufficio per l’Europa dovrebbe diventare un volàno per l’economia e la ricerca romana e far crescere il sistema produttivo capitolino nella sua dimensione internazionale: a tale scopo è necessario generare innovazione, anticipando la domanda e riducendo il disavanzo della bilancia tecnologica, massimo fattore del disavanzo della bilancia commerciale. Le risorse devono finanziare coloro che vogliono investire in innovazione tramite la ricerca e solo successivamente trasferire sul piano industriale i risultati della ricerca finanziata. La proprietà dei brevetti ottenuti con fondi pubblici rimarrebbe pubblica.
Da un lato è necessario rivitalizzare i settori produttivi già insediati a Roma, la Meccatronica, le bio e nanotecnologie, l’aerospazio e l’elettronica professionale, lo sviluppo dei materiali avanzati, e, puntare sulla bioedilizia (riutilizzando gli immobili abbandonati) e sulla farmaceutica prevenendone la delocalizzazione. Dall’altro è opportuno fare di Roma una Città Intelligente costruendo una filiera lunga di aziende Ict e Tlc che abbia una ricaduta sulla mobilità, sul distretto dell’audiovisivo e sul ciclo di smaltimento dei rifiuti. Quest’ultimo è un tema che incrocia la ricerca, l’innovazione, la gestione virtuosa dei fondi europei, lo sviluppo locale e l’azione amministrativa. Come? Ecco un esempio.
Anni fa, Alessandro Sannino, professore di Ingegneria dei Materiali presso l’Università di Lecce, ha realizzato un idrogelo iperassorbente, un materiale in grado di assorbire un litro di acqua in un grammo di materiale secco completamente biodegradabile e biocompatibile. Le applicazioni dell’idrogelo sono straordinarie. I pazienti dializzati possono, ingerendolo, far assorbire acqua dall’intestino per ridurre la quantità di liquido da eliminare durante la dialisi. E poiché i pazienti dialitici, lo 0,6% della popolazione italiana, incidono per il 6% sulla spesa sanitaria nazionale, è evidente il risparmio potenziale. Inoltre l’idrogelo potrebbe sostituire nei pannolini la parte assorbente che, attualmente costituita da prodotti non biodegradabili, aumenta la massa dei rifiuti. Infine questo materiale potrebbe essere usato per assorbire il percolato dei rifiuti e abbattere il quantitativo di sostanze tossiche rilasciate nell’atmosfera. In un’Italia del merito Sannino guiderebbe un progetto finanziato dal fondo europeo per lo sviluppo regionale; invece, per continuare il suo studio con i fondi necessari, è stato costretto a vendere quote importanti dei risultati della ricerca a due società private. E allora ecco sciolto il nodo fondi europei – ricerca – innovazione: una buona amministrazione finanzia la ricerca per un brevetto pubblico dell’idrogelo, segue la sua industrializzazione dando un forte impulso all’industria farmaceutica locale; successivamente grazie all’uso del prodotto industrializzato, nella raccolta differenziata riduce la massa dei rifiuti, il loro percolato e le sostanze tossiche rilasciate, e, in campo sanitario riduce la spesa per i dializzati a parità di servizio; virtuosamente le risorse risparmiate possono essere spostate in altri capitoli di spesa sanitaria.
La politica per recuperare l’astensionismo al 50 % deve partire da qui: spendere bene i denari disponibili migliorando i servizi e rilanciando il lavoro assieme alla ricerca.