Quando nel pomeriggio si diffonde la voce di una trattativa in corso fra Di Maio e Salvini, il Pd stappa lo champagne. Per i renziani è il film preferito, il governo giallo-verde, il tanto peggio tanto meglio: e cioè la prova provata che «non c’è forno possibile» fra M5s e dem. Se non a patto di un rovesciamento dei rapporti di forza a favore del Pd. «Noi siamo disponibili a sederci con chiunque sia incaricato dal presidente della Repubblica. Se fosse un presidente Cinquestelle, noi ci sederemmo senza sconti, consapevoli che le distanze tra noi e loro sono enormi: da loro ci dividono il presente e il passato», dice a Cartabianca (Raitre) Graziano Delrio, contro la Lega sarà opposizione, ma anche contro i 5 stelle, «durissima».

DELRIO È UN RENZIANO ADULTO e temperato. I pasdaràn della sua corrente dopo aver tifato per l’accordo, alla fine, quando sfuma, non si arrendono: «Di Maio è passato dal ’mai con Berlusconi’ al ’no Berlusconi, sì appoggio esterno Forza Italia’. Ancora un po’ di pazienza e finirà dritto a pranzo ad Arcore», twitta Davide Faraone. E Michele Anzaldi: «Di Maio getta la maschera: è pronto a fare il governo con i voti di Berlusconi. Male assoluto? Delinquente abituale? Tutto dimenticato». Il Pd in linea con l’ex segretario finge di non crede alla rottura del tavolo fra centrodestra e grillini: «Il balletto tra M5s e centrodestra è tutta tattica», assicura Ettore Rosato.

MA IL VERO REBUS è se sfumata l’ipotesi di governo fra le liste più votate, presto si arriverà a bussare alla porta del Pd per far nascere un governo «di profilo istituzionale» con i 5 stelle, magari con i due partiti in posizione defilata (tre: in questo caso rientrerebbe in gioco anche Liberi e uguali, anche se Sinistra italiana ha già chiarito che i suoi parlamentari non sono disponibili).
PER QUESTO I DEM alzano la posta: chiunque voglia chiedere il loro appoggio dovrà giurare fedeltà alla stagione delle riforme: lavoro, scuola, pensioni. Lo sottolinea indirettamente Matteo Renzi dalla sua tempestiva nuova enews: «C’è ancora moltissimo da fare. Ma l’Italia sta meglio rispetto a quattro anni fa grazie alle riforme. E se anche non ci viene riconosciuto dalla grande maggioranza dei commentatori, tutti sanno che questa è la verità». Intanto però «tocca a loro».

L’EX SEGRETARIO annuncia la data della prossima Leopolda nel week end dal 19 al 21 ottobre prossimo. Titolo: «La prova del nove», un gioco di parole sul nono anno della kermesse. Per i pochi che avevano dubbi, Renzi non ha intenzione di fare il «senatore di Lastra a Signa». Anzi si fa sempre più concreta l’ipotesi che l’ex segretario smetta di lavorare nell’ombra (nel suo studio di palazzo Giustiniani è un via vai continuo dei suoi) e torni a gestire apertamente la prossima delicata fase delle consultazioni. Contando su un «reggente» debole e ormai apertamente piegato alle indicazioni degli ultrà renziani, e su una discussione politica rimandata a data da destinarsi. Dopo la formazione del governo, formalmente, dopo le regionali, forse anche dopo le amministrative di giugno.

È IL TIMORE DELLE MINORANZE. Che ieri mattina, prima che la scena politica fosse occupata dalla trattativa fra destre e 5 stelle, è tornata a chiedere una rapida convocazione dell’assemblea nazionale. Rinviarla, scrive Andrea Orlando sull’Huffington post, «è stato un errore» e «rischia di incancrenire ancora di più la situazione», urge un chiarimento a fondo «sul sistema di relazioni con le altre forze politiche e sulla collocazione riguardo alle famiglie europee», «Peggio della sconfitta può diventare la mancata reazione alla sconfitta». Gli fa eco Gianni Cuperlo: «Il Pd ha tenuto una posizione coerente. Ma ora è più utile e limpido monitorare un passaggio così difficile in una sede democratica, l’unica per altro dove oggi si esprime una collegialità».

UNA DIREZIONE NON SI NEGA a nessuno. Come, dopo un congresso perso, non si negò un’assemblea programmatica allo sconfitto Orlando che l’aveva proposta. Delrio infatti risponde di sì: «È giusto che gli organismi dirigenti siano tenuti al corrente della crisi», anche se è stato un bene rinviare la data del 21 aprile: «Un mese non toglie nulla al partito». Il punto è che ben prima di un mese il Pd sarà richiamato, con ogni probabilità, «alla responsabilità» di sostenere un nuovo governo. E fin lì saranno i vituperati caminetti, stavolta convocati da Renzi, a decidere.