Il governo Draghi riaprirà al 100% le scuole nelle zone arancioni il prossimo 26 aprile e intende realizzare tutto quello che non è stato fatto, o è stato fatto in maniera lacunosa e estemporanea, dall’inizio della pandemia 13 mesi fa: sistemare i trasporti, creare una medicina scolastica e un tracciamento, eliminare le «aule pollaio». Oggi si aspetta dal comitato tecnico scientifico altri lumi per modificare un protocollo sanitario applicato in maniera intermittente, a seconda delle occasioni in cui le scuole sono state chiuse e riaperte e in base agli echi prodotti dagli annunci in un’opinione pubblica stremata. La strategia resta la stessa ed è il risultato di un mix di improvvisazioni e annunci irrealistici, non delle politiche strutturali chieste per mesi da centinaia di manifestazioni.

SEMPRE CHE ESISTA, manca un’idea certa dei dati sui contagi dentro e fuori le aule. Gli stessi evocati dal presidente del consiglio Draghi che parla di un «rischio ragionato». Ragionare sul rischio non significa però essere razionali. La scuola è stata chiusa a marzo perché la variante «inglese» del Covid colpisce i più piccoli. Oggi viene riaperta anche se tale variante è diventata dominante. Era vero prima o è vero oggi? Nei suoi ragionamenti il governo non ha spiegato come intende completare la vaccinazione del personale scolastico interrotta dopo avere cambiato la priorità di AstraZeneca (ora solo agli over 60) con il quale sono state vaccinate al 13 aprile 1.116.556 docenti e personale Ata. In alcune regioni è stato raggiunto l’80% del personale, in altre meno. Mancano circa 400 mila persone e non si sa quando saranno vaccinate. Nell’attesa saranno obbligate a tornare in presenza, sebbene gli sia stato detto che lo avrebbero fatto almeno con la prima dose. Questo caos fa parte del «rischio ragionato» in un paese dove, nell’ultima settimana, ci sono stati più di 100 mila contagi e oltre 2400 decessi. Dopo avere fatto passare agli studenti (in particolare quelli delle superiori) mesi di agonia in didattica a distanza, gli è stato concesso di fare 40 giorni in presenza fino alla fine dell’anno scolastico. Come se fosse un premio. Se qualcosa andrà storto è presumibile che saranno additati a responsabili. E scatterà lo stigma dell’«untore» e della colpevolizzazione dei comportamenti individuali. La politica gioca con uno Yo-Yo paranoico. È una costante nel governo neoliberale della pandemia.

IL PROBLEMA è riemerso ieri dopo un incontro al ministero dell’istruzione a Roma con i sindacati della scuola che hanno chiesto al governo di rimettere in discussione l’idea del ritorno in classe del 26 aprile. «Ci troviamo davanti a un atto di volontà politica non supportato da condizioni reali – ha detto Francesco Sinopoli (Flc Cgil) – Prima di decidere la riapertura al 100% in presenza bisogna riprendere subito la campagna di vaccinazione, rinnovare i protocolli di sicurezza, effettuare tracciamenti, anche a campione, valutare i dati dei vaccinati, ancora non disponibili. In caso contrario non c’è alcuna garanzia per studenti e personale scolastico». «C’è un problema politico da risolvere: programmare per tempo – ha detto Pino Turi (Uil Scuola) – Ci vogliamo chiedere quali interventi sono stati messi in campo? Cosa è cambiato rispetto a prima? Pensiamo al tracciamento che non è stato mai realizzato. I tamponi salivari ci sono, non ci sono? Che cosa possiamo rispondere?».

IERI non sono arrivate novità sui trasporti, sul tracciamento, sui tamponi rapidi e l’uso delle mascherine Ffp2 che non possono essere quelle di comunità; ancora nulla sullo sdoppiamento delle classi, tanto meno sulla richiesta della stabilizzazione dei precari avanzata da mesi o su un ripensamento dei tavoli prefettizi che avrebbero coordinato un altro rientro, quello di gennaio voluto dal governo «Conte 2». Le scuole sono state richiuse.

IN QUESTO SCENARIO pieno di incognite anche i presidi hanno sparato bordate. «Più che un atto di fiducia verso la ripresa questa riapertura delle scuole ci sembra un ulteriore scaricabarile degli amministratori verso i dirigenti scolastici» ha detto Mario Rusconi, presidente Anp-Lazio – A Roma oltre il 70% degli edifici risale agli anni Settanta del secolo scorso. Gli spazi comuni sono spesso locali rimediati ma certamente non ampi da garantire il distanziamento. Come si può riaprire, in queste condizioni, le scuole al 100% salvando capre e cavoli?».

NEI PROSSIMI SEI GIORNI quasi tutte le scuole italiane dovranno rifare la programmazione tra enormi difficoltà mai risolte dal marzo 2020. Anche i «tamponi salivari», di cui si discute almeno da settembre 2020, sono auspicati anche se non danno certezze e non è stata predisposta l’organizzazione necessaria. L’azzardo del governo si regge sulla speranza che il caldo dell’estate, e la vaccinazione, abbassino i contagi. E che, da giugno, la chiusura delle scuole faccia il resto. Per i giorni che restano ieri si ipotizzava un escamotage: accordare la deroga, a livello regionale, e anche a livello di istituto, di stabilire in quale misura effettivamente gli studenti torneranno in classe. Se così fosse il ragionato calcolo di Draghi si rivelerebbe un altro annuncio per dare un messaggio populista ai docenti e agli studenti, e ai loro genitori, gravemente provati dalla didattica a distanza

SI PROFILA, nel frattempo, un nuovo tira e molla con le regioni. Il nuovo presidente della Conferenza delle Regioni Massimiliano Fedriga (Lega/Friuli) ha detto che «bisogna raccontare la verità e dire fin dove è possibile arrivare, altrimenti si fanno danni. Meglio dire i limiti altrimenti non si risolvono i problemi». Oggi l’incontro con il governo. «Non vogliamo cadere nel solito tranello tra rigoristi e aperturisti – sostiene il movimento «Priorità alla scuola – pretendiamo che il prossimo trimestre diventi centrale per rendere esigibile il diritto alla studio e una scuola in presenza sicurezza e in continuità».