Una forzatura dopo l’altra, violazioni delle regole a ruota libera: la riforma della scuola si rivela ogni giorno di più come la grande sagra della prepotenza, del disprezzo per il Parlamento, dell’arroganza di un governo che si sente al di sopra di tutto.

Il dibattito lampo nell’aula del Senato è iniziato ieri pomeriggio. Si concluderà stasera, con il voto sulla fiducia che il governo porrà in mattinata. Non sul testo uscito dalla Camera. Non sul maxiemendamento presentato dagli ex relatori. Su un nuovo maxiemendamento governativo che arriverà stamattina. Contenuti ignoti: dovrebbe essere molto simile a quello degli ex relatori, con qualche lieve modifica che potrebbe essere favorevole ai precari. Persino Renzi si rende conto che stavolta lo strappo con la sua base elettorale è lacerante e poco recuperabile.

La riforma, modificata a palazzo Madama, dovrà di conseguenza tornare a Montecitorio. E’ già stata calendarizzara per il 7 luglio. Tanto per dimostrare ancora una volta, ove mai ce ne fosse bisogno, quanto sia bugiarda e tendenziosa la giustificazione addotta dal governo e dal Pd per spiegare l’aggiramento del voto in commissione e la clava del voto di fiducia. Ci sarebbe tutto il tempo per votare i subemendamenti delle opposizioni, che sono 630 e non migliaia come insistono nel favoleggiare governo e truppa piddina. La sola urgenza era quella di impedire al potere legislativo di legiferare. Passata quella paura, si può procedere.

L’ultimo schiaffone alle regole, per ora, arriva quando il presidente della commissione Cultura Marcucci si produce in una vera e propria relazione su un ddl che, non essendo stato votato dalla commissione, escluderebbe la presenza dei relatori. In questi casi, è vero, la parola spetta al presidente della commissione competente, ma solo per illustrare brevemente ciò che in commissione era stato detto. Marcucci, militante della guardia di ferro renziana che condivide in pieno la passione del gran capo per i metodi spicci, come se niente fosse si produce invece in una vera relazione, esaltando i meriti di quella riforma che la sua commissione, se fosse stato possibile, avrebbe bocciato. Il presidente Pietro Grasso, come d’abitudine, lascia correre.

Finisce che il capogruppo di Fi Paolo Romani, forse il meno esagitato tra tutti i senatori e solitamente pacatissimo, sbotta peggio di un grillino. Ricorda il precedente del voto sull’Italicum, anche quello arrivato in aula senza relatore: in quell’occasione la presidente Finocchiaro si era comportata all’opposto esatto di Marcucci. Scatenato Romani arriva ad ammonire Grasso per il suo mancato intervento. Il secondo cittadino dello Stato non se la prende. Ignora la proteste e avanti tutta.

Il primo voto importante è quello sulla pregiudiziale di costituzionalità, presentata da Sel, sottoscritta da tutte le opposizioni. E’ forse la sola occasione per battere la riforma, ricorda la presidente del Gruppo Misto-Sel Loredana De Petris. Ma la paura di un incidente che potrebbe facilmente sfociare in elezioni anticipate è più forte delle critiche alla riforma. La pregiudiziale, per convinzione o per forza, viene respinta.

L’ultimo atto è atteso per oggi. La Lega potrebbe rivedere la decisione di uscire dall’aula e votare apertamente la sfiducia. Sel lo farà di certo e anche l’M5S. Forza Italia, che senza la fiducia avrebbe forse approvato la riforma, deciderà. Renzi canterà vittoria. Twitterà le consuete banalità su un governo che finalmente decide, bombarderà il pubblico votante di bugie spiegando che lui, democraticissimo com’è, ha forzato la mano solo per poter assumere i precari. Ma stavolta il rischio che si tratti di una classica vittoria di Pirro è alto.

La riforma è pessima in sé, ma il modo con cui è stata imposta è se possibile molto peggiore. Le bugie, l’ostruzionismo della maggioranza, l’imbavagliamento della commissione, l’umiliazione di tutti i soggetti sociali coinvolti, il volgare ricatto sulla pelle dei precari, non fanno a brandelli «solo» la scuola ma la democrazia parlamentare, e nasconderlo non è proprio possibile. Quando dice che «Renzi è finito», il pentastellato Luigi Di Maio esagera. Ma non di troppo.