Il suono delle campanelle che segneranno il ritorno in aula di più di otto milioni di scolari in tutta la Spagna si sente sempre più vicino. Così come il brivido che percorre la schiena delle milioni di famiglie che si accingono a iniziare un anno scolastico incerto e instabile. E che hanno accolto con stupore la notizia che la Liga ha consigliato ai giocatori di serie A di non mandare i propri figli all’asilo per evitare che contagino i loro danarosi genitori.

Giovedì finalmente ha avuto luogo l’incontro fra la ministra dell’educazione, Isabel Celaá, il ministro della sanità, Salvador Illa, e i loro 17 più 17 omologhi regionali, e come era inevitabile, la montagna ha partorito un topolino: in Spagna la competenza scolastica è completamente regionale e dunque sono le comunità autonome che avranno l’ultima parola sulle sorti dei loro alunni. Formalmente, sono state aggiornate le linee guida che il ministero dell’educazione aveva già emesso subito dopo la fine dello stato d’allarme, a giugno, aggiungendo alcune indicazioni: l’uso della mascherina a partire dai sei anni, la temperatura prima di entrare in aula (se a carico di scuola o famiglia ogni regione decide per sé), la ventilazione delle aule (finestre sempre aperte, e se non è possibile, prima di iniziare ogni lezione), il lavaggio delle mani almeno cinque volte al giorno. Naturalmente, ogni positivo (o contatto stretto di un positivo) dovrà mantenere la quarantena, e nessuno, professore o alunno, potrà varcare le soglie della scuola con sintomi. Non appena un tampone è positivo, tutto il “gruppo stabile” (ogni classe in teoria sarà isolata dalle altre) verrà mandato a casa. Un centro scolastico chiuderà solo se si identifica una trasmissione comunitaria fra diversi gruppi. Una scuola sarà considerata “focolaio” a partire da tre contagi, ma nessun genitore potrà rifiutarsi di mandare i figli a scuola per paura del contagio se le autorità indicheranno che la scuola rimane aperta.

Il governo, infine, ha promesso di studiare misure lavorative per proteggere i genitori che debbano mantenere i figli in quarantena (ma ancora non è chiaro come), anche se il ministro della sanità, scandalizzato, ha detto ieri che data la situazione attuale «non concepisce» che un genitore mandi a scuola un figlio ammalato.

Peccato che, guarda caso, la maggior parte dei contagi si hanno proprio in quelle famiglie dove i genitori non possono permettersi babysitter o di rimanere a casa.

Saranno comunque le 17 comunità autonome a decidere cosa si farà davvero: la Catalogna ha già detto che non cambierà il suo protocollo (che va nella stessa direzione, ma non prevede l’obbligo delle mascherine dai 6 ai 12 anni, a meno che la situazione non lo richieda, e che per le classi superiori continuerà a permettere il record nazionale di alunni per classe, 30, quando le linee guida ne prevedono 20), mentre le Asturie, che al momento sono la regione messa meglio nel paese, hanno deciso di ritardare di 15 giorni l’inizio delle lezioni (nei paesi baschi stessa decisione per i licei).

La Spagna intanto è il paese dell’Unione europea con il maggior numero di casi coronavirus dall’inizio della pandemia, ed è anche quello con il maggior tasso di contagi per popolazione. Otto delle dieci regioni più colpite d’Europa sono proprio in Spagna: Aragona (che è in lento calo), Madrid (in forte crescita), Paesi Baschi, Baleari, La Rioja, Navarra, Catalogna e Castiglia e León. Sei comunità (fra cui Madrid e Castiglia e León) hanno accettato di aumentare il numero dei loro tracciatori di contatti con militari offerti dal governo.

A proposito della più importante comunità governata dal Pp, quella di Madrid, alcuni degli ospedali della capitale non ricevono i risultati dei tamponi da giorni, mentre si fanno screening massicci senza nessun criterio epidemiologico («populismo sanitario», l’hanno definito alcuni medici). Nelle due ultime settimane, a Madrid ci sono stati quasi 10mila casi, un terzo del totale.