Aumento dei salari bloccati e non premi legati alla formazione obbligatoria e riservati solo al 40% dei docenti, messi in concorrenza per avere in un triennio tremila euro lordi, 50 euro nette al mese in più. Per il rilancio del ruolo del contratto nazionale di lavoro, fermo da quattro anni con conseguente perdita drastica di potere d’acquisto e contro l’umiliazione del personale scolastico prevista dal governo Draghi in un decreto legge (numero 26), descritto dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi come un «investimento».

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SONO QUESTE le ragioni che hanno portato ieri i sindacati della scuola Flc Cgil, Cisl e Uil scuola, Snals e Gilda a chiamare il secondo sciopero generale in cinque mesi dopo quello del 10 dicembre 2021 (allora senza la Cisl). E non si esclude lo sciopero degli scrutini. La protesta conferma la centralità della questione salariale in Italia in un momento di massima disattenzione per le questioni sociali di fondo, sostituite da operazioni propagandistiche e inconsistenti come il «bonus 200 euro» erogati a una platea di 28 milioni di persone con un reddito imponibile entro i 35 mila euro lordi. Salari, dunque, una tantum, né bonus. Il contrario di quanto è previsto invece dall’agenda economica neoliberale seguita da tutti i governi prima, durante e dopo la pandemia.

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TRE SONO LE RICHIESTE avanzate dai sindacati dopo la rottura avvenuta ufficialmente ieri: lo stralcio completo del «decreto Erode» che aggira la contrattazione e non risponde all’esigenza di aumentare salari e diritti, né affronta in maniera efficace il precariato strutturale sul quale si regge la scuola; stanziare fondi adeguati per un vero rinnovo contrattuale che recuperi tutto quanto è stato perduto da circa un milione di persone negli anni dell’austerità, a partire dalla crisi precedente, quella del 2007-2008; stabilizzazione dei precari che saranno penalizzati dal cambio delle regole deciso dal governo con un blitz normativo. «La rigidità del ministero rispetto alle questioni sollevate non ha lasciato margini» sostengono i dirigenti sindacali Francesco Sinopoli, Ivana Barbacci, Pino Turi, Elvira Serafini, Rino Di Meglio.

CONTRO la «riforma Draghi- Bianchi» del reclutamento e della formazione c’è stato già un primo sciopero indetto dai sindacati di base venerdì scorso. Ne abbiamo parlato su queste colonne. La protesta avrebbe coinvolto l’uno per cento dei lavoratori del settore. Percentuale, in proporzione, paragonabile all’adesione a quella del 10 dicembre scorso: 6,25% a fronte del 70% dei rappresentati da questi sindacati. Il problema della partecipazione è particolarmente evidente nella scuola, un luogo dove i lavoratori si sentono, e sono, vessati o trascurati. Ciò tuttavia non sembra essere sufficiente per scatenare una risposta come quella contro la devastante riforma di Renzi e del Pd della cosiddetta «Buona scuola». Era il 5 maggio 2015.

UN’INTERPRETAZIONE aspra di questa situazione è quella, ad esempio, di Giovanna Lo Presti, portavoce della Cub Scuola, sul sito «La tecnica della scuola» che non risparmia critiche ai «sindacati maggiormente rappresentativi»: «Frustrati, delusi, sottopagati i docenti si lamentano costantemente del proprio lavoro ma sono convinti di non poterlo modificare in meglio. E se la prendono con “i sindacati”, facendo di ogni erba un fascio – scrive – Dove sono stati, in questi anni, i lavoratori della scuola che criticano “i sindacati”? Qual sono stati il loro apporto costruttivo e la loro critica puntuale? Una cosa è certa: sino a che si sarà severi nel giudicare le azioni altrui e molto indulgenti verso la propria ignavia nulla potrà cambiare in meglio».

UNA CRITICA DURA all’assuefazione, alla sfiducia, all’adattamento e all’individualismo, dunque. Il «morfinismo politico» di cui parlava Gramsci a proposito della «rivoluzione passiva». Oggi è quella neoliberale che ha travolto la società italiana da anni, e non solo gli insegnanti. La loro condizione di subalternità è stata usata da tutti i governi, da ultimo Draghi, per ribadire una direzione presa già venti anni fa e più. E di cui hanno approfittato movimenti come i Cinque Stelle per incamerare voti e poi continuare sulla stessa strada che dicevano di contestare.

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LO SCIOPERO della scuola permette di comprendere un altro aspetto profondo del momento politico che viviamo in Italia. La fretta di approvare entro giugno un’altra «riforma» si spiega con il «Pnrr». L’urgenza è usata oggi per imporre un modello di formazione e lavoro, domani chissà. Una lezione da tenere debitamente in conto per tutte le altre questioni che saranno affrontate da tale «piano». In nome dell’emergenza si possono imporre decisioni contro i bisogni e gli interessi dei molti. Confidando che non ci sia alcuna reazione.