Due eventi pubblici fra ottobre e novembre, il «Festival della partecipazione» (Bologna, 16-18 ottobre) e gli «Stati generali della scuola digitale» (Bergamo, 27 novembre) hanno messo in luce il ruolo della scuola come destinatario di fondi europei, dal Recovery Fund al Mes e a Next Generation Eu. Dopo essere per anni stata depredata, la scuola si trova oggi a essere possibile destinatario di risorse: che, al di là delle formule retoriche, richiedono decisioni esplicite sulle destinazioni. Si tratta di decidere, in base a quale idea di scuola si propone, quale sarà la scuola del prossimo decennio.

La crisi ha messo in luce debolezze strutturali della società in quasi tutti i settori. Fra questi, non fa eccezione il Terzo Settore, quell’area dai confini labili che va dal volontariato e dalle cooperative più o meno virtuose, fino a realtà come Fico. Che attraverso i «patti territoriali» mira ad attingere alla scuola e ai suoi progetti. La formula d’uso è che «la scuola da sola non ce la può fare»: attraverso progetti scolastici proiettati sul territorio, si mira a delocalizzare fette di didattica, sub-appaltandone l’effettuazione a personale in genere privo di titolo didattico, ma il possesso di estemporanee «competenze».

Meno studenti e più esplicite le intenzioni di chi, da Confindustria ad Assolombarda ai gruppi imprenditoriali, passando per associazioni tecnocratiche come Impara Digitale e Base Italia, punta all’istituzionalizzazione della didattica digitale. Che la scuola sia stata in grado di reggere l’urto della quarantena, compiendo dall’oggi al domani un aggiornamento professionale impensato, passa in cavalleria. Così come viene bypassata la constatazione che la didattica digitale, sostitutiva della didattica in presenza, ha abbassato il livello degli apprendimenti e creato un pericoloso gap, che rischia di proiettarsi nel futuro se la scuola rimarrà «a distanza», nonostante i dati dimostrino che le scuole non sono state focolai di contagio. Con agile sillogismo, si premette che i limiti della didattica digitale sono emersi perché si è voluto fare con essa quello che faceva la didattica in presenza; ne segue che con la didattica a distanza si deve fare solo ciò che essa è in grado di fare.

La conclusione, sottintesa, è che quel differenziale fra didattica in presenza e didattica digitale, non potendosi effettuare a distanza, deve cadere. Ne consegue che i fondi europei devono concentrarsi sull’innovazione digitale, dunque sull’impresa, piuttosto che in edilizia, stabilizzazione del personale, didattica in sicurezza, spazi didattici adeguati, recupero dei tagli degli ultimi 10 anni. Segue che la digitalizzazione deve concretizzarsi in un allargamento illimitato del lavoro cognitivo e intellettuale, superando la scansione istruzione/lavoro/pensione in favore di un’istruzione digitale long life. Quanto all’allargamento della forbice sociale, sarà la stessa innovazione a riequilibrare le discriminazioni: la distribuzione degli strumenti digitali consentirà alle donne di conciliare vita familiare e lavorativa (così Gori, il nuovo che avanza nel Pd).

La scuola deve quindi essere attraversata da cambiamenti di lungo periodo per «favorire il match fra domanda e offerta»: orientamento fin dalle scuole medie in favore dell’istruzione professionale, implementazione dell’alternanza scuola-lavoro, percorsi universitari differenziati con laurea breve professionalizzante. Deve assumersi l’onere della formazione all’impresa, cioè fornire manodopera minorile a costo zero al mondo industriale. Confindustria e Assolombarda non hanno mutato lessico: lo squalo ha i denti, così come Meckie Messer il coltello, diceva Brecht.

Nei giorni in cui il lancio della «Netflix della cultura» apre scenari inquietanti per la circolazione di una cultura che la scuola si ostina a voler contribuire a creare, la ripartizione dei fondi nella bozza di #NextGeneration Italia spiega molto, se non tutto: 9.8% per «Istruzione e Ricerca», quasi la metà dei quali «Dalla ricerca all’Impresa», contro il 24.9% per «Digitalizzazione Innovazione Competitività e Cultura». È bene saperlo, e sapersi regolare.