Il silenzio è bandito. E il borbottìo che fa da sottofondo non è tanto quello dei visitatori che si aggirano per le sale della Fondazione Prada a Venezia, ma qualcosa che parte dagli oggetti stessi. Sono loro a «parlare», a stridere, a ritmare i passi degli altri. Così accade che in un pomeriggio assolato e già dai colori estivi, nelle stanze della sede espositiva a Ca’ Corner della Regina, si possano ascoltare marcette militari, carillon, canzoni da juke-box, improvvise sirene, il ticchettìo del metronomo, colpi martellanti. Stranissimi strumenti musicali, in un dialogo serrato che si sviluppa essenzialmente per contiguità spaziale, raccontano una storia parallela del suono, sperimentale e strettamente legata al quotidiano più che alle hall da concerto. Una bicicletta, un televisore e una serie di quaranta sirene servono, per esempio, a Wolf Vostell per comporre il suo Radar Alarm (1969); un blocco di cemento che pesa più di duecento chilogrammi può urlare con voce di donna (Concrete Tape Recorder Piece di Bruce Nauman), mentre l’artista giapponese Takako Saito offre alle orecchie e al tatto la sua delicata opera, Sound Chess. Si tratta di un insieme di cubi, in legno chiaro e scuro, disposti sulla consueta scacchiera: per distinguere i pezzi uno dall’altro e giocare è necessario prenderli e scuoterli, ognuno produrrà un rumore diverso (sempre in tema di scacchi, un omaggio a Duchamp, Saito a metà degli anni Sessanta aveva realizzato anche gli Spice Chess, pedine che si basavano sul profumo piuttosto che sul suono).
Germano Celant, curatore della mostra Art or Sound (visitabile fino al 3 novembre, apertura dalle 10 alle 18, tranne il martedì), ha deciso che il museo non debba essere più «il luogo dell’astinenza sensoriale», lo spazio razionale dell’occhio e della mente. Così ricollegandosi alle avanguardie storiche – non può mancare l’Intonarumori futurista di Russolo – e, ancor prima, al fascino degli automi (sonori) del Rinascimento o alle gabbie-orologi cantanti con tanto di canarini del Settecento di Jaquet-Droz e Henri Maillardet, cerca di creare un percorso acustico che provochi continui détournement percettivi. Nonostante la rottura della divisione fra i sensi e l’invito reiterato a passeggiate sinestetiche, siamo in presenza di una mostra classica (l’allestimento è stato ideato dallo studio 2×4 di Michael Rock): Celant sceglie la dimensione oggettuale, srotola una cronologia non classificatoria e procede oltre, affidandosi alle performance degli elementi. Nella grande rassegna parigina del 2005 (Sons et Lumières), lo spettatore veniva immerso in paesaggi sonori avvolgenti, entrava e usciva da ambienti sensoriali, perdendo le coordinate della realtà, sperimentando mondi paralleli e tendenzialmente ipnotici. In Laguna, non accade nulla di tutto ciò. Si viene convocati tutti insieme per leggere le «distonie» di pianoforti, violini, batterie, per registrare le metamorfosi musicali, la cacofonia dell’everyday o la sua inedita poesia nascosta in rumori che passano inosservati e che invece meriterebbero attenzione perché rappresentano l’autentica colonna sonora delle nostre esistenze. È quel che si evince dalla bellissima installazione dell’indiano Subodh Gupta Jutha: in alcuni lavelli di acciaio si accatastano le stoviglie, residui di un pasto famigliare. Sembrano abbandonate, ma un sordo sciabordìo dell’acqua e uno sfregarsi invisibile delle scodelle ci fa capire che qualcuno è al lavoro, sta lavando piatti e bicchieri: agisce nell’anonimato più assoluto. «Le cucine hindu – dice l’artista – sono importanti quanto le stanze dedicate alla preghiera». La litania è rassicurante, quasi un mantra.
La dimensione multisensoriale di cui parla Celant nel testo di introduzione alla rassegna, forse non c’è. Possiamo tranquillamente affermare che lo scarto fra quelle parole che fanno da cornice teorica e l’itinerario proposto a Venezia sia lo stesso che esiste fra l’eco che amplifica un suono e la voce naturale, il riverbero e la luce diretta. Ma, al posto di quella dimensione sollecitata per un futuro (o un presente già in atto), incontriamo il tentativo di proporre una collezione eccentrica – e sempre in soggettiva – di quei manufatti che hanno giocato con la musica, l’hanno interpretata, ne hanno assunto le sembianze – anche fisiche. L’atmosfera è decisamente onirica. Chi volesse «assaggiare» emozioni forti, tuffarsi in ambienti ad alto tasso di spettacolarità, sbaglierebbe esposizione. Quella alla Fondazione Prada è principalmente una mostra di sculture, è questa la sua peculiarità programmatica. In un certo senso, la lunga infilata di oggetti che stupiscono (anche per la loro arcaicità di meccanismi) è una sacca di resistenza, una insubordinazione al luogo comune che spinge le mostre verso l’eclatante. Emblematica al riguardo, la Rappresentazione plastica delle battute 52-55 della fuga in mi bemolle di J. S. Bach, una concrezione di note di Henrik Neugeboren, compositore rumeno conosciuto in Francia con il nome d’artista Henri Nouveau. Quell’aspetto spaziale e temporale dell’udito era frutto delle discussioni con Kandiskij e Klee al Bauhaus.
A testimoniare la plasticità della musica ci sono poi opere come Earth Horn del sound artist giapponese Yoshimasa Wada (strumento a fiato composto da tubi differenti, uniti dalla competenza dell’autore nel campo, dato che a New York lavorava  come idraulico), oppure  Le trombe del giudizio di Michelangelo Pistoletto. Eliseo Mattiacci ha immortalato invece l’abbaiare dei cani in una metropoli come la Grande Mela: l’ha fatto allestendo undici elementi in metallo con piatti di batteria e registrando quegli ululati divenuti poco selvaggi ormai. Joe Jones (musicista e attivista di Fluxus) con Bird Cage rende omaggio al grande compositore americano piazzando un violino al posto degli uccellini da carillon. Quando il motore è in azione, le corde dello strumento vengono strimpellate secondo un «pentagramma» casuale. Edward Kienholz ha dato vita a una creatura pelosa uscita da foreste primitive: è carnivora, eppure ha la forma di un melodioso violino.
Il cortocircuito è in agguato. In mostra, si è storditi non tanto dai rumori quanto dalle surreali apparizioni di radioline funzionanti che fuoriescono da «nature morte» pop (Tom Wesselmann) o manopole invisibili per sintonizzazioni che cambiano canali (Jean Tinguely), da pianoforti che vibrano irretiti in una trama di appuntiti chiodi (Günther Uecker), da un metronomo che sfodera un occhio appeso al suo braccio oscillante. Man Ray incaricò questo suo amatissimo Indestructible Object (di cui esistono diverse repliche e versioni) a rappresentarlo nelle sue furie creative, lo elesse a autoritratto dell’effimero e specchio emozionale (l’occhio inserito pare che fosse quello della sua amante, la fotografa Lee Miller).
Prima di entrare in quel «laboratorio sonoro» che mixa le creature meccaniche degli artigiani agli assemblaggi degli artisti contemporanei bisognerà salutare un automa un po’ speciale: è Oskar, il protagonista Il tamburo di latta di Grass richiamato in vita da Maurizio Cattelan. È un bambino che se ne sta a cavalcioni in un punto precario – un davanzale in questo caso, proprio nello scalone d’ingresso – e con la sua presenza inquietante (è concentrato solo sul tamburo) riafferma il diritto all’infanzia, piccolo Peter Pan che non vuole crescere in un mondo di orrori ad uso e consumo degli adulti.