Nel giugno 1974 la Pinacoteca di Brera, con Franco Russoli soprintendente, chiuse. Erano diventati intollerabili le difficoltà di gestione e la mancanza di fondi. Alla fine dell’anno successivo il museo riaprì con una mostra che presentava i risultati dell’attività svolta dalla Soprintendenza milanese. A quell’allestimento fluido, nel ’76 si aggiunsero temporaneamente due sculture lignee appena restaurate da Eugenio Gritti: il Crocifisso della chiesa di Santa Maria Maggiore a Sondalo, in Valtellina, e il San Grato di Sant’Antonio a Vendrogno, sul lago di Como. Un catalogo composto da cinque fogli ciclostilati dovuti a Teresa Binaghi Olivari e a Paolo Venturoli, oggi introvabile, raccoglieva con un linguaggio piano i risultati dei restauri e degli studi su quegli oggetti accantonati fino ad allora come semplice attrezzeria da venerazione paesana. Visto dal 2019, era un momento in cui le energie e le passioni civili riformavano una concezione della tutela e della funzione stessa del museo. Chi allora si spendeva sul territorio faceva una storia dell’arte aliena da preconcetti, cercando di non tralasciare nulla, sperimentando e saldando un metodo; disegnando infine, a partire proprio dai sentieri di montagna percorsi in Lambretta, una mappa più precisa della maniera moderna nel ducato milanese. La fortuna della scultura lignea lombarda esplosa negli anni successivi e costante fino alle mostre attuali germoglia in questo contesto, da quelle pagine ciclostilate.
Un’esposizione come Alessandria Scolpita 1450-1535 Sentimenti e passioni tra Gotico e Rinascimento, a cura di Fulvio Cervini, al Palazzo Monferrato di Alessandria, è possibile proprio grazie a quei presupposti. La mostra si articola attorno a gruppi di opere che si saldano in tre diverse sezioni, secondo il procedere della cronologia e con una narrazione che avanza per confronti. Negli anni in esame la città e i territori limitrofi sono soggetti al dominio sforzesco. Gli orientamenti provenienti da Milano, capitale del ducato, sono assorbiti dalle botteghe locali adeguandosi a tradizioni radicate; non mancano inoltre né le addizioni dall’esterno, come il trittico del grande Bartolomé Bermejo ad Acqui, né gli artisti alessandrini che, pur lavorando altrove, non interrompono i rapporti con la terra d’origine: Giovanni Mazone, tra i più noti. A un orizzonte linguistico locale, rappresentato nella prima sezione da alcuni Crocifissi prodotti in un’aerea compresa tra le Alpi Marittime, la riviera ligure e la pianura alessandrina – bellissimo il Cristo deposto di Ozzano, inedito fin qua, con braccia mobili per un doppio utilizzo durante la liturgia della Settimana Santa –, si contrappongono le eleganze della scultura tardogotica: ne dà conto il «gloriosissimo» Ostensorio del duomo di Voghera, un contenitore architettonico costruito guardando da vicino il cantiere del Duomo milanese; un concentrato d’alta qualità del lessico formale visconteo-sforzesco.
I rapporti si cercano anche tra pittura e scultura: nella Maddalena di Novi Ligure le linee della scultura locale – quella del Compianto di Castellazzo Bormida, al centro della seconda sezione – sono modernizzate sull’esperienza di Baldino da Surso e di Mazone – ma viene alla mente anche Martino Spanzotti. Le forme nervose del Crocifisso di Masio, con barba e capelli di stoppa, la muscolatura tesa e le costole rilevate, sembrano trovare un parallelo nella Crocifissione di Mazone della Pinacoteca Civica di Savona dove rocce e personaggi vengono giù dalle incisioni mantegnesche, con un gusto vicino a quello del Maestro di Trognano; la Vergine e il San Giovanni provenienti da San Paolo ad Asti si accostano invece a Gandolfino da Roreto. Di quest’ultimo è in mostra, tra gli altri dipinti, uno dei più bei polittici del Rinascimento piemontese. Proveniente da Quargnento e restaurato per l’occasione, è la testimonianza della maturazione di Gandolfino avvenuta a contatto con l’ambiente cremonese, allora infiammato di eccentricità. I rapporti intessuti tra quest’area del Piemonte e Cremona sono noti. Per esempio, è commissionata all’orafo cremonese Giovanni Antonio Feta la croce processionale in argento per il Duomo di Asti, terminata nel 1505, oggi in mostra. Pochi anni dopo, nel 1510, è documentato il rapporto tra Gandolfino e il prospettico, intagliatore e ingegnere cremonese Paolo Sacca; dello stesso anno è l’Adorazione dei magi un tempo in Santa Maria dei Servi a Vignale Monferrato, anch’essa oggi esposta ad Alessandria, dipinta da Francesco Casella: un altro cremonese.
Da oriente giungono anche gli influssi dei Del Maino, tra i più importanti scultori del Rinascimento, lombardo e non solo. Di Giovanni Angelo resta sul territorio la Madonna del parto di San Dalmazzo ad Alessandria. È l’elemento superstite di un’ancona realizzata probabilmente verso la metà del secondo decennio del Cinquecento, quando in città è attiva almeno una bottega che si fa portatrice di quello stesso linguaggio, stemperandone però l’accentuazione emotiva in figure che modulano i moti leonardeschi in sentimenti più controllati. Come nel Compianto di Serravalle Scrivia, il perno della terza sezione, dove l’afflato spregiudicato che anima i legni dei Del Maino è riproposto sottovoce, quasi mancassero gli strumenti figurativi adatti a sostenerne il peso.
L’epilogo della mostra si gioca su un rilievo ligneo proveniente da una grande macchina d’altare progettata dall’aretino Giorgio Vasari per Santa Croce a Bosco Marengo. Un cantiere, voluto dal boschese papa Pio V Ghislieri nel 1566, dove si introducono forzosamente modelli tosco-romani. Sullo sfondo di una situazione politica completamente nuova si chiude definitivamente una stagione della cultura figurativa di quest’angolo di Piemonte.
Con pochi passi, lungo un percorso cittadino che amplia l’orizzonte dell’esposizione, si arriva a Santa Maria di Castello. Alcuni brani del Compianto in terracotta policroma lì conservato sembrano usciti dal turbine umano della Cappella della Crocifissione del Sacro Monte di Varallo, certo con i toni smorzati, con il «tepore d’una continua carezza», per dirla con Testori, raffreddato da una misura più classica. Mentre pensiamo se e chi può averlo già detto, e scende velocemente l’ombra della sera, camminiamo verso il parcheggio passando sull’ultima chiazza di neve rimasta. Ci sarà tempo per ripensarci, compulsare il catalogo (Sagep, p. 343, euro 35.00), e tornare: la mostra chiude il 5 maggio.