Nel 1944 l’Italia è divisa in due, il nord sotto il controllo nazifascista, il sud liberato. Nel 1943 il Torino si era laureato campione d’Italia, nel ’44 il campionato si svolge solo nel nord Italia, dove sono concentrate le più forti squadre, sollecitato dai nazifascisti per allentare nella popolazione la morsa della guerra. È un campionato che si gioca sotto le bombe, aperto alle squadre di A, B e C, che possono reclutare calciatori presenti nelle vicinanze, per servizio militare o perché ricongiunti alle famiglie, anche se appartenenti a squadre diverse. La finale si gioca il 16 luglio all’Arena di Milano tra il Torino di Vittorio Pozzo, allenatore che aveva portato gli azzurri alla vittoria dei mondiali del ’34 e del ’38 e la squadra dei vigili del fuoco di La Spezia, che a sorpresa sconfigge 2 a 1 il grande Torino guidato da Valentino Mazzola e Silvio Piola.

Non si poteva permettere che i campioni d’Italia allenati da Pozzo sfigurassero, lo scudetto assegnato allo Spezia, dopo quindici giorni viene revocato, il campionato è definito «di guerra». Nel 2002, perché si restituisca il maltolto, un comitato di spezzini fa pressioni sulla Federcalcio, che trova una soluzione all’italiana: assegna un’onorificenza allo Spezia, consentendole di giocare con lo scudetto sulla maglia, ma la squadra non figura nell’Albo d’oro delle squadre vincitrici dello scudetto. L’attore Gianfelice Facchetti, figlio del grande capitano dell’Inter e della Nazionale, da questa storia ha tratto uno spettacolo teatrale, Eravamo quasi in cielo, in scena allo spazio Tertulliano a Milano dal 10 al 21 maggio e poi in tour.

Come nasce l’idea di questo spettacolo? 

Nasce dalla lettura di un libro di Armando Napoletano Un giorno di allarmi aerei, che raccoglie le testimonianze dei protagonisti di questa vicenda. È un libro che mi regalò papà, quando lo lessi mi resi conto che era una storia potenzialmente da teatro.

Perché portare una storia di o 70 anni fa sul palcoscenico?

Nella storia dello Spezia il punto più alto è rappresentato dal fatto che si giocava a pallone in un contesto in cui bisognava sopravvivere. Ci sono calciatori che diventano vigili del fuoco in una città come La Spezia, tra le più bombardate d’Italia, e nonostante la guerra nei ritagli di tempo trovano la voglia di partecipare al campionato, senza percepire alcun compenso. Le partite in trasferta le facevano viaggiando con l’autobotte, dietro questi uomini c’era la volontà di ribadire che la guerra non poteva portarsi via tutto.

La storia dello Spezia che cosa può insegnare ai ragazzi di oggi che guardano il calcio globalizzato?

Rispetto alle nuove generazioni sono ottimista, si rispecchiano in quel modello perché è l’unico che gli viene proposto, abbiamo poco coraggio nel raccontare loro le storie che partono dal basso, quelle che non sono da copertina, se raccontiamo lo sport in tutta la sua bellezza, in tutta la sua poesia, lo riconoscono subito, siamo noi adulti che vogliamo parlare dei protagonisti, dei vincitori e non abbiamo il coraggio di parlare dei gregari, dei calciatori di serie B e di quelli che stanno nelle serie inferiori, i dilettanti, quando manca la base ciò che è in alto si riduce a semplice spettacolo. Quando scompare la gente che gioca per puro piacere, nelle aree verdi, negli oratori, negli spazi liberi, viene meno la cultura sportiva, sostituita da quella del profitto, dei vincitori, che deve alimentare il merchandising, i diritti televisivi a prezzi da capogiro.

Chi dovrebbe raccontare le storie dello sport dentro la cornice della cultura sportiva? 

Tutti quelli che hanno la responsabilità dell’informazione, che vada oltre le notizie sui campionati, la champions league, i mondiali di calcio. Bisognerebbe spostare l’obiettivo anche su coloro che partono dalle seconde file, su chi non entra mai in campo e comprendere, in questo racconto, la parte popolare. Perché se il calcio in Italia è stato un romanzo popolare è perché c’è stato un pubblico che lo ha accompagnato, anche se ora lo si vuole ridurre a consumatore.

C’è una scena dello spettacolo in cui volano le figurine.

Le figurine per me e tanti coetanei è stato il modo per entrare in contatto con il mondo magico del calcio, la carta, l’adesivo, il contenitore, l’album, ti avvicinavano a quel mondo e allo stesso tempo giocavi con gli altri. Vedo che ai ragazzi di oggi manca il contato sociale, manca il gioco, la capacità di scambiarsi le figurine, non c’è più l’interazione. Rispolverare il gioco a muro che si faceva tra noi è come riproporre il senso di quel campionato del ’44.

Nello spettacolo reciti che «quel campionato avviene tra stragi naziste e ancora un anno di guerra». Aveva senso giocare a calcio?

Era un modo per non farsi portare via tutta la libertà, compresa quella di giocare a calcio. È quello che succede oggi dopo gli attentati dell’Isis, che fai ti chiudi in casa? Per fortuna si ha la forza di reagire perché non vuoi che vinca la paura, quel campionato è stato giocato in condizioni non del tutto felici. Il giorno della finale i giocatori sono andati a Milano per giocare all’Arena, avevano la famiglia a La Spezia, la situazione bellica stava precipitando, erano stati a Brescia, mai colpita dai bombardamenti, ma proprio in quei giorni viene bombardata, si spostano di nuovo. Non penso ci fosse leggerezza nella loro scelta, ritengo che fosse un modo per fare qualcosa che avesse un senso civico.