Nicola Abrate conosce tutto di quella azienda. Le mani giunte, i gomiti appoggiati alla scrivania, racconta quasi a se stesso a bassa voce, come in una confessione laica: «Pensa che quando sono entrato in fabbrica i capannoni erano incompleti, mancavano i tetti, le porte, c’erano solo un paio di binari dai quali arrivavano le carrozze. Sono stato uno dei primi, e ci ho lavorato fino alla chiusura». Cinque anni al centro di uno dei quartieri più popolari di Avellino, otto ore a scrostare amianto col raschietto nelle carrozze ferroviarie delle Ferrovie dello Stato all’Isochimica di Elio Graziano, il rozzo tangentista delle “lenzuola d’oro”, il quale a metà degli anni ’80 andava dicendo con cinismo ai suoi operai che non correvano assolutamente nessun rischio: «Fa più male la coca cola che l’amianto».
Sostiene paziente Abrate, mentre muove nervoso i pollici, che all’inizio addirittura le carrozze si lavoravano direttamente alla stazione ferroviaria, proprio così, «c’era una fossa non troppo grande dove buttavano le scorie, sicuramente ci sarà amianto anche la sotto». Tutto vero. Infatti un ex capostazione in pensione, Pietro Mitrione, dichiarò a suo tempo: «Prima che l’Isochimica aprisse, le carrozze di Ferrovie dello stato venivano scoibentate all’interno della stazione, su un binario a poche decine di metri dalle casette post-terremoto, in cui noi dipendenti lavoravamo e a contatto con i viaggiatori e con gli abitanti del quartiere che abitualmente frequentavano quel luogo». «Chi doveva sapere, sapeva. Quelle carrozze le mandarono da noi che eravamo i terremotati bisognosi di lavoro», è scritto nella denuncia che il segretario provinciale di Rifondazione comunista Antonio Della Pia ha depositato alla Questura nel febbraio scorso. Della Pia ha ricevuto diverse minacce e anche una lettera minatoria che ha trovato imbucata nella cassetta della posta, secondo lui scritta volutamente in un italiano stentato: «Sei avvisato la colpa è tua porco bastardo e fai una fine che ti meriti, l’amianto in bocca infame».
C’è anche lui nella sala riunioni della Camera del Lavoro, mentre Abrate continua a parlare in questa torrida giornata di luglio infiammata di luce, dove l’umidità penetra le stoffe, come c’è il segretario Petruzziello. Sostiene con pudore che facevano tutto manualmente, ignari del pericolo: «Si smontavano gli arredi, il rivestimento, e sotto c’era uno strato di polvere, con uno stecchetto metallico lo frantumavi e poi con una spazzola di ferro dovevi grattare fino a portare via tutto», spiega ancora con dovizia di particolari l’uomo calvo dal viso grande con gli occhi chiari e lo sguardo malinconico. Non sapevano niente dei rischi che correvano, e asserisce ancora con meraviglia: «Pensa che il primo giorno, quando arrivai mi misero a lavorare in produzione con i miei abiti, i jeans, la camicia, quello che avevo addosso. E quando giunsi nella carrozza trovai altri ragazzi tutti molto giovani. Era proprio il momento della scoibentazione e avevano le tute sporche di polvere. Così ho cominciato». Non poteva immaginare come era fatta una fabbrica, quel poco glielo aveva raccontato suo padre, operaio anche lui in un altro stabilimento. «La sera, quando finimmo di lavorare, mi colpì il modo in cui gli altri operai mi guardavano. Erano curiosi di capire se avrei resistito arrivando alla fine, come avevano fatto loro prima di me, perché visto il lavoro schifoso molti mollavano il colpo». Pensavano che l’azienda era nata da poco, presto le cose sarebbero migliorate. «Ma non migliorarono mai», sostiene Abrate, «proprio mai. L’unica cosa che mi ricordo è che c’era una spinta ad accelerare tutte le fasi di lavorazione. Bisognava fare in fretta, rispettare i tempi di consegna. Lavorare, lavorare, lavorare e basta» dice ancora, scuotendo scettico la testa, chiuso e compresso nel corpo, una camicia azzurra immacolata. Lo invito a raccontare tutto quello che ricorda, quello che sa e che vuole, insomma. «So di alcuni miei colleghi», testimonia, «che hanno pagato, hanno pagato all’epoca, in lire, qualche milioncino per entrare. Pensa un po’», sostiene Abrate disincantato, poi controlla l’ora sul quadrante dell’orologio scuro che gli stringe il polso sinistro. Sono entrati 333 operai in quella fabbrica nei suoi cinque anni di vita. Dieci sono già morti di asbestosi, uno di loro si è suicidato a quarantotto anni, lasciando una moglie e due figlie, altri centocinquanta sono stati riconosciuti malati o esposti, degli altri non si sa niente. 333, come il numero che indica il mistero dell’unità di Dio.

«Due ne ho persi della mia squadra», sostiene ancora Abrate con voce calma, inflessibile, senza nessuna rabbia adesso ma con la pazienza di chi è costretto a raccontare ancora una volta questa brutta storia, e li nomina: «Alberto Olivieri e Luigi Maiello. Quando sono morti ho pensato che quel morbo ci avrebbe preso tutti, anche dal numero di ammalati, perché qui tutto era sotto silenzio, e mentre a Borgo Ferrovia accadevano quelle cose gli enti preposti non controllavano», dice. E ancora sostiene, trattenendo il respiro, ricominciando a parlare nella sala riunioni surriscaldata: «Perché dopo qualche anno cominciammo a capire che qualcosa non andava, arrivavano notizie, e poi c’era il segretario di Democrazia proletaria che la sera ci aspettava ai cancelli della fabbrica con dei giornali, dei documenti, per farci capire cosa era successo in altre stazioni delle Ferrovie dello stato, il numero di morti impressionante».
Sono gli anni in cui, dopo le denunce fatte anche della Cgil, e dell’omertoso comportamento dell’Usl n.4 che non fece nessun intervento, arriva dagli esperti dell’Università Cattolica di Roma, i quali avevano effettuato dei sopralluoghi, una minacciosa relazione che recita testualmente: «Gran parte dell’amianto manipolato è di tipo “crocidolite”, la varietà più pericolosa di minerale (…) La scoibentazione avviene in un ampio capannone unico privo d’aspiratori e di sistemi d’abbattimento della polvere (…) è effettuata a secco e pertanto in ambiente estremamente polveroso anche ad occhio nudo». Abrate li ricorda qui tre medici arrivati da Roma: «Si fermarono davanti ai cancelli e dissero che era impressionante quello che stavano vedendo: “ma qua sta uscendo amianto dappertutto”, commentarono angosciati, si vedevano a occhio nudo delle enormi masse che uscivano da quelle porte». «Non possiamo fare niente», avvertirono ancora, prima di lasciare la fabbrica. Le squadre di operai lavoravano negli spazi angusti delle vecchie carrozze ferroviarie, quelle fatte a scomparti, «in un metro quadrato c’erano tre lavoratori» dice ancora, guardando nel vuoto, «due che grattavano sui tetti, scendevano addosso a tutti grandi masse di polveri». Sostiene di essersi controllato anche lui, lo dice preoccupato, teso, senza tradire una particolare emozione. «Ma sono dovuto andare praticamente a Siena, dove c’è un centro abbastanza specializzato per questo tipo di malattie» spiega, e gli hanno riconosciuto una patologia, «perché ad Avellino l’Asl, anche se esiste una Unità operativa amianto, fino al 2008 non ci ha mai visitato, poi dopo le proteste hanno cominciato a chiamarci, ma ho capito subito che qualcosa non andava, perché i referti di queste lastre erano quasi tutti uguali. Invece di farci la tac ad alta risoluzione, la facevano in bassa, senza somministrazione di mdc evo, quindi erano tutte negative. Una cosa gravissima», sostiene ancora con lo stesso tono della voce senza particolari incrinature raccontando di quella peste nascosta, controllata da tutti i poteri locali, vietata alle coscienze. Persino il Giudice del lavoro di Avellino gli ha dato torto, sostiene Abrate, che adesso parla più svelto e con un tono più robusto nella grana della voce: «Pur riconoscendo che ho una malattia, si è avvalso di un perito che dice che Siena non è scienza, la scienza sta in Irpinia».
Sorride beffardo. Il problema era fare il racconto giusto, quello onesto. Sì, proprio una narrazione come si deve. La stessa che si svolge adesso oralmente in questa giornata di luglio inoltrato. «Noi abbiamo ricostruito una storia, che ormai è chiara a tutti. Questa è una vicenda bruttissima, perché tra l’altro ci sono le Ferrovie dello Stato, che in quegli anni già sapevano dell’amianto, in quanto nelle officine Grandi riparazioni di Firenze, avevano questo problema che c’erano già numerosi morti, numerosi ammalati. Hanno scelto Avellino dove c’era un territorio sconvolto da un grande terremoto», dice ancora. Ma questa è una città particolare e, nonostante tutto quello che è successo, la stampa che ha scritto, le indagini della Procura, le molte denunce dei sindacati, la gente non partecipa. Anche se nel quartiere, a Borgo Ferrovia, ci sono già molte persone che si sono ammalate, morte di cancro, ma tutto tace. «Sopraggiunge quella mentalità che c’è già una sconfitta in partenza», sostiene Abrate, ci ha riflettuto a lungo. «Forse è una cosa più profonda, forse questa città è abituata ad avere qualche Mammasantissima o politico, allora scelgono una strada diversa, sistemano le proprie vicende personali attraversa i Mammasantissima», dice adesso con velenoso disprezzo.
Abrate ha sostenuto e congetturato per anni. «In che paese viviamo?» mi chiede, ma è come se ancora interrogasse se stesso. «C’è una realtà vecchia dove il medico del padrone nega ancora, modifica addirittura quelli che sono ancora i referti. È una situazione drammatica, quella di lavoratori che avevano un tumore e non è stato diagnosticato. Parlo di Luigi Maiello, che purtroppo è morto. Gli sono stato vicino e ho seguito tutta la sua fase finale, non ha avuto neanche diritto di morire con quella piccola possibilità», dice, «s’era ammalato e aveva perso anche il posto di lavoro, aveva, ha dei figli, s’accorse che la vita se ne stava andando… guardava a me, e io gli dicevo “sì, aggio capito, noi faremo la battaglia, non te preoccupà, ci riusciremo”» dice prima di battere una mano sul tavolo e iniziare a piangere, abbattuto.

La fabbrica, posta sotto sequestro dal giudice Rosario Cantelmo il giugno scorso, che ha contestato a 24 persone i reati di concorso in disastro ambientale doloso, cooperazione colposa in disastro ambientale, si trova in periferia, in una di quelle strade morte che stanno in tutte le città dove c’è stata almeno una chiusura, oppure una dismissione, o un sequestro. Sono luoghi tutti uguali, dove il Capitale ha razziato, scappando come le mosche del celebre romanzo di Paolo Volponi: «Le sapienti colorate voraci mosche del capitale, sì, le mosche… per di più svolazzano e ronzano dappertutto, in bell’inglese, per andare a succhiare e a sporcare». Sono venute anche qui a lordare dove le erbacce hanno preso il sopravvento sull’asfalto, le crepe segnano le strade, vecchi tubi grigi ingorgano il marciapiedi polveroso, i cancelli sono sprangati e coperti da fitti teli scuri e la fabbrica è in larga parte inaccessibile allo sguardo.
Nei cinque anni di attività sono passate da queste parti 499 elettromotrici e 1740 vetture passeggeri, ognuna delle quali conteneva tra i 2000 e 3000 kg di amianto, 20000 quintali in totale per la precisione. All’entrata uno striscione rosso con scritto: «Operai ex Isochimica, 20 anni di ingiustizie, vergogna», e dentro i resti di un vecchio stabilimento in rovina dalle mura esterne tinteggiate di giallo, spettrale e silenzioso come pochi. «Si facevano delle enormi buche all’interno del perimetro della fabbrica», ricorda ancora Abrate, «poi con le carriole ce lo buttavamo dentro o lo mettevamo nei sacchi». Sotto quei ruderi da venticinque anni c’è solo amianto. È un minerale molto duttile, isolatore termico straordinario, un magnifico materiale insonorizzante, e una sua fibra è 1300 volte più sottile di un capello umano. Peccato che inalandone pure solo una, anche dopo quindici e fino a quarantacinque anni, ci si ammala di mesotelioma, o carcinoma del polmone. Tutto inizia con uno stato d’astenia, perdita di peso, quindi arriva la tosse, le infezioni bronchiali, il versamento pleurico, il vomito fecaloide, poi il corpo si deforma, comincia a gonfiarsi. Alla fine si muore soffocati, tra sofferenze atroci, straziati da un dolore invincibile.